“Youth – La giovinezza”
di Paolo Sorrentino

Fare i conti col passato per poter vivere il futuro

di / 20 maggio 2015

In un elegante albergo ai piedi delle Alpi svizzere, il compositore e direttore d’orchestra Fred Ballinger trascorre una delle sue tante vacanze estive. Fred ha ormai ottant’anni, ha smesso di dirigere da anni, anche se la musica non l’ha mai dimenticata e continua a cercare il ritmo o una sinfonia nel fruscio della carta delle caramelle o nei campanacci delle vacche al pascolo. Trascorre le sue giornate tra passeggiate, trattamenti di benessere e chiacchierate con il suo vecchio amico Mick Boyle, un regista di culto che sta preparando la sceneggiatura del suo film testamento prima di ritirarsi dalle scene. Fred e Mick condividono la vecchiaia e la nostalgia per la giovinezza, osservano la vita brulicante di delusioni e gioie dei loro figli e degli altri ospiti dell’albergo e cercano di convivere ogni giorno con un passato che fanno fatica a dimenticare.

Il passato è probabilmente il tema su cui Paolo Sorrentino ha sempre preferito soffermarsi nella sua filmografia. Tutti quanti i suoi protagonisti, in forme diverse, più o meno accennate, convivono con i fantasmi di ieri al fianco. Se questa costante suggestione del tempo trascorso è rimasta larvata come sottotraccia generale dei suoi primi lavori, è dal primo film in lingua inglese, quel This Must Be the Place del 2011, che invece ha iniziato a mostrarsi come vero motore narrativo e come nucleo centrale della riflessione cinematografica di Sorrentino.

Il passato è il filo che unisce This Must Be the Place Youth – La giovinezza, passando per il tramite di La grande bellezza. In tutti e tre i film, per tutti e tre i protagonisti, il passato è una sentenza da scontare nel presente per poter vivere il futuro. Cheyenne interrompe la sua carriera di rockstar dopo la morte di un fan e riesce a recuperare la sua vita solo dopo un viaggio nella storia della sua famiglia (c’è il simbolo semplice e potente del trolley che si porta appresso). Lo scrittore Jep Gambardella riesce a tornare a scrivere evadendo dalla città a cui si era consegnato in ostaggio rinunciando al talento per la mondanità. Fred rifiuta le sue composizioni più celebri per “motivi personali”, adotta la vecchiaia come alibi per rinunciare alla vita e per poter continuare a guardarsi indietro anziché guardare avanti.

Nell’albergo di Youth tutti sono oppressi da quello che è stato. C’è il giovane divo Jimmy Tree che non riesce a liberarsi dal ruolo di robot in un blockbuster e diventa amico di Fred. C’è l’ex gloria del calcio (un Maradona estremizzato interpretato da un attore) che ricorda le partite e il suo corpo giovane mentre trascina i chili che lo hanno deformato (tra l’altro, a un certo punto mentre guarda fuori dalla finestra, questo Maradona di Sorrentino dice quasi la stessa battuta che chiude Mia madre di Nanni Moretti).

Di fronte al peso del passato, la reazione comune di tutti i personaggi di Sorrentino è l’apatia, l’indifferenza superficiale alla vita. Era apatico Titta Di Girolamo in Le conseguenze dell’amore, era apatico Il Divo, Cheyenne, Jep Gambardella. È apatico Fred Ballinger ed è l’unico ad ammetterlo come proprio limite. Accanto a loro si muovono sempre personaggi vitali (il fratello delle Conseguenze, la moglie di Cheyenne) o ancora attaccati a un ottimismo a tratti anche ottuso (Verdone in La grande bellezza). Il contraltare di Fred è Mick che non accetta la vecchiaia e continua a lavorare al suo ultimo film, venerato dalla corte di giovani sceneggiatori e schiaffeggiato nella coscienza e nell’orgoglio dalla diva che aveva creato più di cinquant’anni prima (una Jane Fonda breve e memorabile).

L’unico modo per spezzare l’apatia è il redde rationem con il passato che ingombra, con quella Venezia in cui Fred non torna con dei fiori da più di dieci anni, con i figli che se sono un disastro è colpa dei padri, con l’Orrore che si vuole continuare a raccontare quando invece è arrivato il momento di parlare del Desiderio.

Esiliato nell’albergo, Fred può continuare a sentirsi vecchio e quindi autorizzato a non fare niente se non aspettare la fine. La giovinezza del titolo non è tanto un dato anagrafico a cui guardare con nostalgia quanto piuttosto una condizione sempre possibile da recuperare nell’intenzione.

Chiamato forse alla prova più difficile dopo la definitiva consacrazione internazionale del fenomeno La grande bellezza, Paolo Sorrentino ha continuato a fare il suo cinema senza badare troppo alla pressione e alle attese. «La leggerezza è una tentazione irresistibile. E una perversione» fa dire a Fred in una delle prime battute, e per la prima volta i dialoghi di Sorrentino si aprono a un’ironia che dà a Youth una sfumatura da commedia nera, amara, esistenzialista per usare una parolaccia. La leggerezza, però, manca. Quello che è sempre stato una delle caratteristiche chiave del cinema di Sorrentino qui a tratti scivola in difetto. Parliamo della cura della scrittura che qui finisce per diventare eccesso di letterarietà, con l’attenzione che si rivolge molto più ai dialoghi che alla narrazione filmica, al detto rispetto al mostrato. In Youth le cose non succedono: vengono riferite, raccontate dopo che sono già successe (salvo rare eccezioni). Esasperando la struttura a episodi discontinui già propria di La grande bellezza, Sorrentino confeziona una serie di scene, di dialoghi isolati tra loro da stacchi che si ripetono alternando i momenti kitsch degli spettacoli musicali del resort alle gallerie di corpi che ricordano la decadenza di Lucien Freud. Questa chiusura in una forma quasi esclusivamente dialogica rallenta la visione, la chiude a possibilità ulteriori. Una massaggiatrice dice a Fred che gli uomini dovrebbero toccarsi e smettere di parlare, perché si capisce molto di più dai corpi che dalle parole. Dovrebbe capirlo anche Sorrentino: quando i suoi personaggi non parlano e viene lasciata la potenza delle immagini al suo pieno svolgimento, Youth diventa grande. Ci sono tre momenti, senza dialoghi, che segnano la differenza: il sogno con Miss Universo e Venezia allagata; il concerto per natura e mucche; la collina che si riempie di tutti i personaggi femminili che Mick ha diretto nella sua carriera. Peccato che finiscano per essere soffocati dal troppo parlare.

Ci sarebbe da dire ancora qualcosa su Michael Caine e Harvey Keitel, rispettivamente Fred e Mick. Useremo una parola sola: straordinari.

(Youth – La giovinezza, di Paolo Sorrentino, 2015, drammatico, 118’)

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LA CRITICA

Dopo il successo internazionale di La grande bellezza Sorrentino era chiamato a un compito tutt’altro che semplice. Con Youth ha il coraggio di portare avanti la sua idea di cinema, ma tra l’immensità delle immagini e della grandezza tecnica si insinua l’eccesso delle parole.

VOTO

7,5/10

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