“Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet”
di Jean-Pierre Jeunet

Gli Stati Uniti secondo il padre di Amélie

di / 5 giugno 2015

T.S. ha dieci anni e un’intelligenza fuori dal normale. Vive in un ranch in Montana con i genitori e la sorella Grace. Aveva un fratello, gemello dizigote, di nome Layton, morto in un incidente. T.S. si sente responsabile della morte di Layton, anche se non ha colpe. Cercavano di stare sempre insieme, anche se non avevano nulla in comune. Perché Layton era come il padre, silenzioso cow-boy nato nel secolo sbagliato, e T.S. è come sua madre, un’entomologa persa dietro alle sue ricerche. Per T.S. tutto quanto può essere analizzato scientificamente. È proprio per questo modo di osservare le cose che finisce per vincere il premio Baird indetto dall’istituto Smithsonian. Perché T.S. è riuscito a inventare una macchina a moto perpetuo. Per ritirare il premio decide di mettersi in viaggio da solo, senza dire niente alla famiglia, attraversando gli Stati Uniti.

Passato nella sezione Alice nella Città dell’ultimo Festival del Film di Roma, Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet porta sullo schermo il romanzo Le mappe dei miei sogni di Reif Larsen (pubblicato in Italia da Mondadori nel 2010), classico moderno per l’infanzia particolarmente apprezzato da Stephen King. Quando Larsen seppe che i diritti del suo libro erano stati acquistati per una versione cinematografica stilò una rosa ideali di registi per realizzare il film: David Fincher, Wes Anderson, Tim Burton, Michel Gondry e Jean-Pierre Jeunet. Tutti registi (Fincher un po’ di meno, o comunque in un modo molto differente) dotati di un forte immaginario, di uno stile immediatamente riconoscibile, di una visionarietà esplicita. Alla fine è toccato a Jeunet, 61 anni, sette film in carriera tra cui il pluricelebrato Il favoloso mondo di Amélie del 2001, sorta di punto di non ritorno per la filmografia di Jeunet. Perché prima era un regista che aveva colpito con il film d’esordio, Delicatessen del 1991, al punto da venir chiamato da Hollywood per dirigere il quarto film della saga di Alien. Dopo è diventato, e rimarrà per sempre, «quello di Amélie». Con tutto quello che comporta, perché si è molto più esposti ai passi falsi dopo un tripudio del genere. E Jeunet, nei film successivi, non è mai più stato all’altezza di quel se stesso ingombrante, né come qualità né come quantità, intesa come incassi. C’è da dire che a Jeunet questa etichetta non dà fastidio. Lui ha continuato a fare il suo cinema, con i suoi tempi, con le sue scelte sempre diverse e mai banali.

Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet lo conferma come un regista dallo straordinario talento visivo. I suoi Stati Uniti ideali, fermi a una rappresentazione quasi infantile dei miti abituali della frontiera, del West, della ferrovia, esplodono di colori grazie alla fotografia di Thomas Hardmeier. Il ranch degli Spivet è un micro-mondo di fienili rossi, di animali impagliati, di grandi cappelli e di tecnologie sospese. Anche il dolore è affrontato con una leggerezza da fumetto, anche l’incomunicabilità. Nella famiglia di Spivet nessuno è realmente vicino a nessuno. Si vogliono tutti bene ma non sanno dimostrarselo, sono tutti sconvolti per la morte di Layton, ma dal giorno dell’incidente nessuno ha più detto una parola al riguardo. Sono corpi che si passano accanto, che si sfiorano appena per dirsi tutto (c’è la scena molto bella dei genitori che si incontrano in corridoio e si toccano appena le mani e T.S. che racconta spiega che è stato in quel momento che ha capito che i suoi genitori si amavano, nonostante tutto).

Il viaggio di T.S., oltre al fine pratico del premio, è un viaggio interiore, di allontanamento dal nucleo per riuscire a compattarlo di nuovo nella sua forma ristretta. La famiglia è un moto perpetuo che ogni tanto ha bisogno di essere rigenerato, proprio come la macchina che progetta T.S. È dal suo allontanamento, dal suo viaggio al contrario sulla rotta del mito – da ovest a est, dalla prateria alla città – che torna l’unione e la voglia di andare avanti per gli Spivet, che i sentimenti emergono e si riesce finalmente ad affrontare il passato.

Se il viaggio è funzionale alla famiglia Spivet, è invece proprio nel momento on the road che il film di Jeunet perde tutto quello di straordinario che il titolo prometteva. La fuga del piccolo T.S. ha ben poco di originale e molto di già visto, dalle difficoltà agli incontri. Così, tra barboni filosofi, poliziotti stupidi e burberi, la televisione brutta e cattiva sempre alla ricerca del sensazionalismo emotivo, quell’elemento di ingenua magia che alimentava l’avvio nella fattoria Spivet si disperde rapidamente in una seconda parte trascinata e apparentemente stanca.

Se il piccolo Kyle Catlett ce la mette tutta a creare empatia con il pubblico nei panni di T.S., tra pianti e momenti di innocuo stupore, è soprattutto la madre entomologa di Helena Bonham Carter a dare un motivo in più per vedere Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet.

(Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet, di Jean-Pierre Jeunet, 2014, commedia, 105’)

 

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LA CRITICA

Un viaggio interiore ed esteriore, niente di nuovo. Il consueto apparato visionario di Jeunet, unito alla base di un libro per l’infanzia di successo, riesce comunque a colpire lo sguardo dello spettatore. Tra stupore e commozione, Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet fa il suo, ma niente di più.

VOTO

6/10

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