“Il genio dell’abbandono”
di Wanda Marasco

Tra fedeltà alla storia e invenzione, la vita di uno dei più grandi scultori del Novecento

di / 20 luglio 2015

L’arte autentica nasce da una necessità e lascia sempre una traccia. Cresce nel disordine e nell’imperfezione della vita e allude a un’altra vita, più perfetta e più armoniosa.

Vincenzo Gemito, disegnatore e soprattutto scultore eccelso, «meschino per nascita, magnifico per natura», ebbe un’esistenza da cui non poteva che scaturire una biografia romanzata (più romanzo che biografia) altrettanto magnifica, Il genio dell’abbandono di Wanda Marasco (Neri Pozza, 2015).

L’autrice restituisce al lettore il segreto della grande narrativa: l’ambivalenza, un chiaroscuro umano che non diventa mai giudizio, zigzagando nel tempo, ampliando il quadro, colorandolo fino a un’altissima definizione.

Il romanzo inizia con la fuga di Vincenzo dal manicomio Villa Fleurent a Capodimonte per tornare a casa e autorinchiudersi per venti anni. Nel mezzo ne viene narrata la storia da una voce straniante che usa un italiano musicato dal dialetto napoletano, di grande vivezza e drammaticità anche se di livello leggermente inferiore a quello, da flusso di coscienza sgrammaticato, che troviamo negli inserti diaristici di Gemito.

Vincenzo nasce reietto. Abbandonato alla ruota dell’Annunziata detta degli Esposti, viene adottato da una coppia di umili origini che ha da poco perso il primogenito.

Questa fatalità la Marasco la trasforma in una sorta di privilegio, da rigettato a gemius loci: «Vincie’, e chi se ne fotte del sangue delle origini? Cazzate. E vedi il caso tuo. Non hai avuto padre e madre naturali, ma una forza del fato. Per te c’è stato un genio, il genio dell’abbandono, Vincie’. Perché se non ti abbandonavano tu non saresti mai diventato Gemito, il grande scultore Vincenzo Gemito!».

Il destino individuale è unico è può coincidere anche con un errore: un «”Gemito”», che «vuol dire dolore», al posto di «”Genito”, che significa nato, procreato». Tanto basta per modificare il futuro e realizzare la propria eccezionalità. È un impegnativo percorso conoscitivo che implica il capire l’intima necessità di tutto ciò che accade, delle connessioni e relazioni fra cose e persone. Non significa arrendersi passivamente alla sorte, ma cercare di governarla affinché sprigioni le sue potenzialità positive.

Infatti a volte non basta il talento. La vita finisce sempre per avere il sopravvento e gli artisti geniali, in particolare, finiscono per trovarsi più degli altri davanti al sentimento della vanità, della solitudine e del fallimento.

Ma se c’è una cosa che può dare significato alla vita umana, quella è la passione. Di qualsiasi natura essa sia.

E Vincenzo la sua passione la rincorre sin da scugnizzo per i vicoli e le strade di Napoli insieme all’amico, anche lui «pittore nato», Totonno (Antonio) Mancini, affascinato dalle botteghe della scuola caravaggesca.

Napoli, dunque, con i suoi scorci e vedute di strade, vicoli, case, cortili, persone e luce, diventa lo sfondo di questo delirio, di questa passione.

È alle botteghe, prima di Francesco Caggiano, poi di Stanislao Lista, che Gemito sviluppa la sua effervescente vena creativa e capisce che la sua personalità è duplice.

Ma è «sotto le volte di Sant’Andrea» che Vincenzo, libero da Maestri e accademie, «diventò Gemito» e Totonno «diventò l’artista “Mancini”». È qui in «un cavernone spoglio, nel quale la luce arrivava attraverso una piccola ogiva incastrata al centro del soffitto», che nascono i primi capolavori frutto di personale fantasia.

Arrivano così i primi riconoscimenti, le prime sculture famose (l’Acquaiolo, il busto di Giuseppe Verdi); la relazione con la modella francese Mathilde Duffaud; il soggiorno a Parigi dove, oltre a confrontarsi con il miglior melieu artistico del periodo (De Nittis, Boldini, Degas, Rodin, etc.), contrae la sifilide, la «franzesa».

Con il ritorno a Napoli e il matrimonio con Nannina (Anna) iniziano a manifestarsi i primi sintomi della sua schizofrenia. Genio e follia. Ancora un binomio indissolubile.

Vincenzo comincia a diventare insofferente a se stesso e al mondo che non gli tributa il giusto riconoscimento, non solo in termini di gloria, ma anche più prosaicamente di denaro.

Compie per questo gesti assurdi e moralmente sbagliati, come sbattere al muro la figlioletta Peppinella solo perché, appena nata, piangeva, o tentare di accoltellare quello che credeva essere l’amante della moglie.

Gli amici di Gemito, tra cui riconosciamo Eduardo Scarfoglio, Matilde Serao, Alessandro Di Giacomo, decidono così di internarlo in manicomio. Lì vi rimarrà fino alla fuga. Seguiranno venti anni di reclusione per autopunizione nel suo studio di casa, di solitudine e duro lavoro, tranne le occasionali visite del «divino» D’Annunzio e della duchessa Elena e del duca Emanuele Filiberto.

A questo punto passato e presente hanno la stessa consistenza e appartengono a uno stesso universo interiore.

Vincenzo Gemito seppe ricavare dal magma della propria nevrosi un intero mondo di scintillanti creazioni artistiche, plasmando la vile materia quotidiana nell’oro della sua scultura e seguendo, secondo il detto di Rembrandt, come solo maestro, la Natura.

(Wanda Marasco, Il genio dell’abbandono, Neri Pozza, 2015, pp. 352, euro 17)

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LA CRITICA

Ognuno vorrebbe incontrare quelle entità misteriose, miscuglio di reale e immaginario che sono i personaggi romanzeschi. Il Vincenzo Gemito della Marasco forse non somiglia totalmente a quello veritiero, ma è sicuramente straordinario per la sua profondità e la sua fragile e grande umanità.

VOTO

8,5/10

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effe

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