“Pixels” di Chris Columbus

La terra viene invasa da un gruppo di videogiochi anni Ottanta

di / 28 luglio 2015

L’idea di Pixels, il blockbuster estivo di casa Sony costato circa cento milioni di dollari, nasce da un cortometraggio (questo qui) del 2010 scritto  e diretto dal cineasta francese Patrick Jean. Il corto mostrava una Manhattan invasa dai personaggi dei videogame anni Ottanta che riducevano tutto a blocchetti di pixel 8 bit fino ad annullare il mondo. Era divertente, visivamente spettacolare e si reggeva su un’idea di sicura efficacia sul breve periodo (dura poco più di due minuti e mezzo). Per farlo diventare un film da cinema ci voleva qualcosa di più per sviluppare la trama. Alla Sony hanno pensato di chiamare Chris Columbus alla regia, che già con Mamma ho perso l’aereo e i primi Harry Potter aveva dimostrato di saper fare soldi oltreché cinema, e soprattutto di affidarsi ad Adam Sandler, discontinua macchina da incassi che alterna risultati incredibili (soprattutto negli Stati Uniti) a delusioni di una certa portata (economica).

Per allungare lo spunto del cortometraggio si è immaginato che nel 1982, dopo un campionato mondiale di videogiochi da sala, venisse mandata una sonda nello spazio contenente un video del torneo – tra le altre cose – per mostrare a eventuali forme di vita extraterrestri il grado di evoluzione del pianeta Terra, un po’ come è stato fatto nella realtà nel 1977 con il Voyager Golden Record, solo con Donkey Kong e Pac Man al posto di Bach e Chuck Berry. Trenta e più anni dopo, una base militare statunitense viene attaccata da qualcosa di molto simile a un videogioco anni Ottanta. Viene fuori che quel messaggio dell’82 ha raggiunto davvero degli alieni da qualche parte. Alieni che hanno interpretato i videogiochi come una minaccia, un’ostentazione di forza da parte dei terrestri e che hanno deciso di rispondere attaccando la Terra con le stesse armi: i protagonisti di quei videogame. Per combattere l’invasione aliena, il presidente degli Stati Uniti, che da ragazzino era presente a quel campionato mondiale come accompagnatore, decide di affidare la difesa del pianeta al suo migliore amico che nell’82 era lì a contendersi il titolo di campione e che oggi è finito a lavorare come installatore di elettrodomestici.

Il retrogaming va di moda come tutto quello che ha a che fare con operazioni nostalgia e cose simili. Ieri è sempre meglio di oggi che sarà comunque meglio di domani e via dicendo. Al cinema i videogiochi, oltre agli innumerevoli tentativi più o meno riusciti di trasportare singoli titoli sul grande schermo, hanno avuto un rilancio recente con il cartoon Ralph Spaccatutto della Disney, pieno di personaggi reali e inventati dei vecchi arcade. In attesa di Ready Player One diretto da Steven Spielberg (tratto dal romanzo Player One di Ernest Cline, pubblicato in Italia da Isbn), Pixels si prende l’incarico di cavalcare l’effetto nostalgia invadendo il mondo reale con i vari Donkey Kong, Super Mario, Centipede, Pac Man e via di seguito.

Nell’esagerazione della nostalgia immagina un improbabile riscossa per un gruppo di nerd che non sanno fare nient’altro che restare attaccati al mondo della loro infanzia e adolescenza, e per questo rimanere per sempre degli sfigati, anche se uno di loro è diventato presidente degli Stati Uniti.  Sembra quasi un mondo in cui i videogame sono scomparsi dalla cultura generale, anziché continuare a esistere nelle forme evolute, e in cui Adam Sandler e la sua squadra finiscono per essere improbabili sacerdoti di un culto ormai dimenticato ma necessario più che mai, più utili degli addestratissimi Navy Seals per combattere l’invasore. La premessa di partenza, che ci poteva stare come idea divertente e originale, si disperde quindi nella pretesa di un mondo che non esiste. Per quanto sia difficile crederlo, oggi esiste la figura del videogiocatore professionista che guadagna anche bene partecipando a competizioni reali.

Non è solo lo spirito di Pixels a essere sbagliato, questo voler far finta che solo pochi al mondo conoscano i segreti di Pac Man eccetera e che siano relegati al rango di relitti umani perché i videogiochi sono da sfigati. È anche e soprattutto l’impostazione generale, virata verso una demenzialità che vorrebbe strizzare l’occhio, mancando però di intelligenza e cinismo, ai Ghostbuster (c’è anche un cameo di Dan Ackroyd) e che proietta già una luce inquietante sul prossimo reboot tutto al femminile (perché?) che la Sony ha messo in cantiere per l’estate 2016.

Se la partenza di Pixels si fa apprezzare, con gli scambi tra i protagonisti (oltre a Adam Sandler c’è Kevin James a fare il presidente, Michelle Monaghan nel ruolo della mamma abbandonata e sexy che ovviamente ha un ruolo chiave anche nella battaglia contro gli alieni e finisce con il protagonista, e Peter Dinklage di Il trono di spade, che continua a cercare di ritagliarsi il suo spazio di cinema ora che è diventato un nome) che preparano ai primi attacchi degli alieni, col passare dei minuti (troppi) i dialoghi si fanno sempre più banali, così come lo sviluppo della trama e tutto quanto quello dovrebbe far ridere o entusiasmare il pubblico, e alla fine non rimane nient’altro che un prodotto vuoto.

Negli Stati Uniti si dice già che questo film è il chiodo definitivo sulla bara cinematografica di Adam Sandler. Di brutti film ne ha interpretati tanti, ma comunque è un peccato, perché in alcuni momenti, soprattutto con Ubriaco d’amore di Paul Thomas Anderson, aveva fatto vedere di essere capace di qualcosa di buono. Forse dovrebbe lasciar perdere il miraggio degli incassi (qui è anche produttore) e concentrarsi sul suo lavoro di attore.

(Pixels, di Chris Columbus, 2015, commedia, 110’)

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LA CRITICA

Partendo da un cortometraggio geniale, Pixels prova a portare avanti un’idea originale e di potenziale successo cavalcando l’effetto nostalgia dei primi videogiochi. Peccato che a parte le idee prese direttamente dal corto tutto il resto non funzioni affatto.

VOTO

4,5/10

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