“Il club”
di Pablo Larraín

Dal Cile gli orrori della chiesa e le sue colpe

di / 26 febbraio 2016

Il club

Pablo Larraín è uno di quei nomi che è già noto da un po’ di anni a chi conosce il cinema dei festival e dei circuiti più autoriali. Il club, Orso d’argento al Festival di Berlino 2015, è solo l’ultimo titolo di una filmografia che conta pochi film (è il quinto) in pochi anni (ne ha quaranta da compiere) e un consenso che è andato via via crescendo. Dopo l’esordio del 2006 con Fuga, Larraín ha iniziato ad attirare attenzione su di sé con la trilogia dedicata al suo paese, il Cile, negli anni della dittatura di Pinochet. Nel 2008 è arrivato il primo film, Tony Manero, e poi è proseguita con Post mortem No – I giorni dell’arcobaleno. L’ultimo film ha portato una nomination all’Oscar per il miglior film straniero e la definitiva consacrazione, per il regista, come autore importante. Si dice che Hollywood abbia già messo gli occhi addosso a Larraín e punti a portarlo nell’altra metà d’America per affidargli niente meno che il remake di Scarface.  Quello che è certo è che per ora è stato cooptato per il primo film statunitense, Jackie, sulla vita di Lady Kennedy, con Natalie Portman protagonista, e che prima lo vedremo molto probabilmente a Cannes con un altro film biografico, ancora una volta sul Cile, Neruda.

Larraín ha dimostrato, film dopo film, di essere in possesso di un’idea eclettica di cinema, di una capacità e di una consapevolezza da grande cineasta. Un sospetto sui limiti del suo talento può essere collegato alla specificità geografica del suo cinema. Il Cile è sempre centrale, fa parte della trama, influenza i personaggi, il loro stesso essere. Il rischio possibile è che portare fuori dal suo contesto un regista così localizzato possa indebolire il suo modo di fare cinema. Ma è chiaro che, a guardare bene i film, il Paese di cui Larraín parla non è il Cile contenuto nei suoi confini geografici, ma è un Paese più ampio, le cui vicende storiche, per quanto particolari, possono assumere in fretta un valore universale. Una lettura più attenta della “trilogia su Pinochet” può mettere in evidenza un discorso sul potere in generale, e sulla comunicazione che cambia soprattutto con No, ma visti in prospettiva quei tre film, e Fuga, non sono altro che la rincorsa per arrivare a Il club, il film più importante, ambizioso e potente di Larraín.

Siamo ancora in Cile, a La Boca, un paesino con un pugno di case e di barche buttate nel mare. In una di queste case, tinta di giallo, vivono quattro preti che non possono più esercitare, accuditi da una suora che si prende cura di loro. Ognuno di loro ha una colpa grave sulle spalle – abusi su minori, compravendita di bambini, sequestri – e cerca di espiare in una vita isolata regolata da misure di sicurezza e limitazioni. Ci sono i sollievi dell’alcol e la compagnia di Rayo, un cane da corsa che la suora porta a gareggiare nelle sfide di velocità del paese. Per il resto c’è il passato. Un giorno arriva un nuovo prete per unirsi alla casa, perseguitato da una vittima dei suoi abusi, ormai cresciuta, che si fa chiamare Sandokan e lo ha raggiunto fino in quel paese dimenticato. Ci sarà un suicidio e un nuovo prete, Padre Garcia, che arriva per indagare su quello che è successo e decidere se tenere aperta la casa o meno.

Ci sono dei momenti in cui Il club dà la stessa terribile sensazione di masticare pezzi di vetro. È difficile rimanere indifferenti di fronte alle ricostruzioni degli abusi, ai racconti orribili della corruzione dei giovani, alla certezza quasi megalomane dei preti detenuti di essere nel giusto, non nel torto, mai. Per vicinanza di uscite viene quasi naturale cercare un collegamento tra il film di Larraín e Il caso Spotlight di Tom McCarthy, che racconta i peccati della chiesa cattolica di Boston e l’indagine che li rivelò. La differenza fondamentale tra i due film è nel punto di visto. McCarthy non considera neanche gli aguzzini, Larraín invece si concentra solo su di loro, li rinchiude in una casa e li osserva senza allontanarsi mai.

Il contesto arriva dalla casa. I preti sono stati mandati lì dal Vaticano per non sottoporli al processo pensale. Proprio come in Spotlight, proprio come quella che è la prassi delle gerarchie ecclesiastiche, l’orrore e la colpa dei preti vengono riconosciuti, ma non vengono condannati. Vengono spostati. L’orrore, semplicemente, viene rimosso.

La rimozione non è solo nell’allontanamento fisico dei responsabili. I preti rinchiusi a La Boca vivono in una normalità in cui le colpe del passato sono state dimenticate. Tutto sommato, la loro è una vita come le altre, anche se fortemente regolata. È l’arrivo di Sandokan che rimette ogni cosa in discussione, che riapre il confronto con il passato, che ricorda gli errori e la debolezza e finisce per dimostrare ancora una volta la colpa naturale dell’uomo, anche di chi è mandato per indagare.

Con una tensione da thriller che accompagna tutto il film, scandita dalla colonna sonora inquietante, e delle improvvise aperture di lentezza che sottolineano la serenità impossibile della vita a La Boca – un prete zappetta l’orto, l’altro addestra il cane, cenano insieme, sorridono –, Larraín va ancora una volta, e più che mai, oltre i confini della storia e della geografia. La colpa dei preti cileni è la colpa della chiesa cattolica. La Boca è solo una periferia infetta, come infinite altre. Secondo lo stile del regista, ancora una volta la sostanza della narrazione è accompagnata da una forma che si adegua a quello che deve essere mostrato. Come la ricerca sui formati e le pellicole d’epoca che aveva fatto grande NoIl club è strutturato interamente sulla contrapposizione tra luce e ombra, tra rivelato e nascosto, sul controluce che fa intendere le figure ma non ne fa mai scorgere i dettagli. Non staremo a dilungarci sui dettagli tecnici, sull’uso di lenti particolari riprese dal cinema di Tarkovskij e altri particolari troppo specifici, ma ecco, Pablo Larraín ha fatto anche questo.

Qualora ci fossero ancora dei dubbi che questo è un grande regista, Il club li spazza via definitivamente.

 

(Il club, di Pablo Larraín, 2015, drammatico, 98’)

 

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LA CRITICA

Pablo Larraín racconta le colpe della chiesa cattolica isolando quattro preti e una suora in uno dei posti più remoti del Cile. Il club conferma tutto il talento del regista e la sua capacità di andare oltre alla divisione tra forma e sostanza.

VOTO

9/10

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effe

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