“La Madonna dei mandarini” di Antonella Cilento
Il perfetto ritratto della società contemporanea
di Antonio D’Ambrosio / 14 marzo 2016
C’era una volta un angioletto che aveva commesso peccato. Dio, allora, lo rinchiuse per punizione in una cella buia per una giornata intera, e fece convocare San Pietro perché lo sorvegliasse e lo mantenesse a pane e acqua. L’angioletto aveva paura e iniziò a dimenarsi. Ma durante la notte, mentre tutti dormivano un sonno profondo, la Madonna, mossa a compassione, decise di portargli di nascosto dei mandarini.
È questo l’aneddoto – scritto in versi dal poeta napoletano Ferdinando Russo nell’Ottocento – che dà il titolo all’ultima opera di Antonella Cilento, La Madonna dei mandarini (NN Editore, 2015), raffinato romanzo breve scandito in tre movimenti, quasi fosse una danza, veloce ma allo stesso tempo delicata e aggraziata. Perché così è la prosa dell’autrice partenopea, che riesce a essere penetrante e scorrevole, chiara e verace, ricercata senza risultare ridondante: una finezza tutta sua, di cui fa sfoggio anche in questo romanzo, che affronta un tema lontano dalla pomposità barocca del precedente Lisario o il piacere infinito delle donne e molto attuale, cioè la carità verso il prossimo, che assume in queste pagine la forma del volontariato.
Presso il Vomero, a Napoli, si è costituita un’associazione cattolica che si occupa di giovani disabili e di ragazze madri, gestita dal colto avvocato Domenico Staibano, detto Mimì, e dal suo coinquilino Simone Mennella, molto più giovane e ignorante di lui, e finanziata dal parroco don Vincenzo Cuccurullo, un chierico al passo coi tempi che non sembra essere molto preoccupato dei dettami religiosi («Obbedienza e umiltà: che fastidio.»), anzi, da vanaglorioso quale è, si mostra molto più in pensiero per la pubblicazione del suo manoscritto. Dell’associazione fanno parte anche altri ragazzi, come Giovanni, detto Statine, che vive con la nonna e studia medicina, e Camilla, che sognava di fare la pittrice. Se all’inizio la storia procede lentamente, dopo l’aggressione a Simone da parte di Amalia, una delle ragazze madri che lo sgozza con un rasoio, la narrazione diventa più concitata: assisteremo al furto dei fondi raccolti dall’associazione durante una serata di beneficienza, conosceremo meglio Vittorio, ragazzo affetto da sindrome di Down, e la madre Agata Sòllima, e vedremo, tra le altre cose, Simone concedersi a un’altra ragazza dell’associazione.
Peccato e redenzione, sfarzo e umiltà: i poli antitetici dominano lo sviluppo della storia, che si fa inevitabilmente riflesso della società odierna, con le sue luci e le sue ombre. E della quale non viene lasciata da parte nemmeno la patina storica e artistica, enucleata in maniera soave ed eccellente: quella di Antonella Cilento è scrittura che si fa corpo, corpo che si fa narrazione, narrazione sinestetica, che confonde profumi di sfogliatelle, l’eccitazione per la vista del corpo perfetto di una statua, rumori e voci di strada.
La voce soprattutto è uno strumento di straordinaria efficacia che rende l’atmosfera nella quale ci immergiamo fortemente realista; ed è sapientemente sfruttato dalla scrittrice attraverso l’uso del dialetto napoletano. Che è quasi d’obbligo in alcuni casi: ad esempio, la traduzione italiana di “ Je t’aime… moi non plus” perderebbe sicuramente la carica umoristica se non venisse resa con «Io ti amo e tu manc’ p’ ‘o cazz!»
La Madonna dei mandarini è un grande affresco, che non pretende assolutamente di distinguere i buoni dai cattivi, i puri dai peccatori, ma solo di ritrarre una situazione-modello che ne potrebbe esemplificare molte. Anche perché, alla fine di tutto questo disquisire, l’unico vero grande peccato sarebbe lasciarlo in libreria.
(Antonella Cilento, La Madonna dei mandarini, Milano, NN Editore, 2015, pp. 144, euro 13)
LA CRITICA
Con una scrittura sopraffina e un tono pregevole, Antonella Cilento disegna un magnifico quadro della società odierna, cogliendone luci e ombre.
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