“Al diavolo con le mie gambe”: Dino Campana e la società letteraria dei suoi tempi

Dalla lettura di alcune lettere scelte del poeta di Marradi

di / 7 aprile 2016

Dino Campana

L’esperienza del poeta Campana, più che la leggenda dell’artista genio e follia, pone un problema intimamente intrinseco a tutta la lirica moderna, quello cioè del libro di poesia. Dino Campana è autore di un unico libro, al quale lavorò contro l’accanimento, l’indifferenza e la svagataggine dei suoi contemporanei finché durò in lui il desiderio e il patimento dell’arte: un solo libro lungo come tutta la vita, corredato semmai da poesie pubblicate sparse e dai molti inediti ritrovati solo più tardi.

Volendo parlare di Dino Campana oggi, dalla nostra visuale post(uma)-moderna, si è indotti seriamente a chiedersi cosa significa per un poeta il suo lavoro. Ha esso nella sua scaturigine la forma del libro o è piuttosto l’ineguale corso di un fiume sotterraneo che tutt’al più può essere organizzato in periodi d’esistenza, applicando con molta forza e stridore di carta la vita alla forma (capitoli, paragrafi) che il racconto lungo nell’Otto/Novecento ha imposto implicitamente all’idea stessa di letteratura? In effetti l’idea del “libro unico” fu cullata nel corso del secolo XX da alcuni poeti, come ad esempio Vittorio Sereni, che avevano ben presente la difficoltà di dare una forma editoriale coesa ad una storia di appunti, frammenti, serie, variazioni.

Dino Campana è in una maniera che rasenta significativamente l’assoluto il suo libro, il suo unico libro, scritto, perduto e riscritto, stampato e “distribuito” a proprie spese prima che un editore vero (Vallecchi) lo ripubblicasse con gravi errori e omissioni mentre l’autore, definitivamente divorziato dall’idea di sé come artista, lo accoglieva freddamente nel manicomio in cui viveva ormai da dieci anni, tre prima della morte. Come noto questo libro si intitola Canti orfici, e rappresenta, per tanti, tantissimi aspetti, il libro zero della modernità poetica italiana.

Ma c’è un altro aspetto su cui, nel recupero complessivo della figura e dell’opera, si è cominciato a porre l’accento con le riprese di Sebastiano Vassalli e altri studiosi, ovvero i rapporti di Campana con gli scrittori suoi coetanei. Già, perché un libro, ci insegna la più elementare pratica pubblicistico-editoriale, non va solo scritto, ma va anche pubblicato e “promosso”, e dunque, prima ancora, va fatto leggere a chi verosimilmente si interessi di quanto una ricerca sincera si disponga a fare, magari nell’ingenuo e determinato desiderio di dare all’arte una vita nuova.

Per avere un ritratto compiuto di quale fosse la regressione dei rapporti di Campana con i suoi contemporanei letterati si può fare riferimento all’epistolario, di cui un libro uscito da alcuni mesi per l’editore romano L’Orma offre una breve scelta introdotta e inframezzata dalla curatrice Chiara Di Domenico: Al diavolo con le mie gambe (L’Orma editore, 2015, pp. 64, euro 5). In esso si raccolgono lettere a personaggi come Papini, Soffici, Cecchi, Aleramo, Prezzolini lungo un arco temporale che va dal 1914 al 1918. Chiudono il volume due testimonianze del 1927 con cui il poeta si rivolge a Carlo Pariani, suo futuro biografo: lo stile lucido e fantasmatico con cui sono vergate ricorda in maniera davvero impressionante i deliri estremi di un’altra lucidissima e insuperabile folle delle nostre lettere, Amelia Rosselli. Quello che sentiamo è un Campana ormai prostrato e confuso dal lungo internamento:

«Non ho affari né attrazioni in Italia. Suppongo che il governo mi invierà in Germania più tardi per completarvi alcuni rapporti radiotelepatici de la suggestione radiofonica diretta, che sto esperimentando da anni sul luogo stesso. Non saprei cosa dirle sulla mia passata attività letteraria che fu esigua e frammentaria. Il rapporto utile è la sopravvivenza medianica de le idee direttive principali che servono a guidare i fatti. Non so spiegarmi meglio. Non importa si disturbi a venirmi a trovare. Io vivo tranquillo seguendo vagamente gli avvenimenti giornalieri e la farragine variopinta de la stampa». (p. 61)

Dino Campana tenta, con tutta la forza di cui dispone un esordiente che esprima il suo desiderio di accettazione, senza tuttavia mettere in conto patti di nessun genere, tenta di avvicinare l’intellighenzia fiorentina distribuita ai primi del Novecento fra La Voce e Lacerba. L’atteggiamento nell’accostarsi al più sofisticato ambiente cittadino allora in Italia è quello di un animo diviso fra il disprezzo che naturalmente si contrae nell’assistere allo spettacolo degli scrittori di moda che formano una società ignara e collusa («Caro Papini, leggendo il vostro Lacerba mi sentivo invaso da un senso di rispetto verso l’immortale pedanteria italiana», p. 16), e l’accento un poco questuante di chi vuole vedersi stampato per avere un segno della propria esistenza:

«Egregio Signor Prezzolini,
[…] Io sono quel tipo che le fu presentato dal signor Soffici all’esposizione futurista come uno spostato, un tale che a tratti scrive cose buone. Scrivo novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato. Aggiungo che io merito di essere stampato perché io sento che quel poco di poesia che so fare ha una purità di accento che è oggi poco comune da noi». (p. 19)

Il poeta «un poco spostato che a tratti scrive cose buone» non sarà stampato, nonostante una certa curiosità che il suo animo burbero susciterà in ascoltatori comunque distratti e a perdere, e nonostante certe promesse puntualmente disattese. A parte lo snobismo in sé di chi avrebbe fatto meglio a prestare più attenzione ai testi e solo ai testi di quel personaggio, si possono individuare alcuni buoni motivi per cui l’opera di Campana veniva sostanzialmente rigettata dalla cultura italiana coeva, e sono motivi che ci parlano di una media borghese cui anche le più radicali decantate rivoluzioni di sostanza o di forma non riuscivano a sottrarsi. Semplicemente, Campana appare un corpo estraneo nel complesso della dialettica fra avanguardia e tradizione primonovecentesca, e come tale viene rigettato, e verrà rigettato per molti anni a venire, almeno fino ai primi parziali recuperi degli anni trenta, quando la generazione dei cosiddetti ermetici metterà il poeta di Marradi a capo di un ipotetico albero genealogico. Citiamo ancora da un brano di Sereni significativamente intitolato Come leggemmo Dino Campana:

«Ma oso affermare che con in mano quell’edizione […] venivamo a trovarci nella condizione giusta per affrontare quella lettura e investircene. Vale a dire che per forza propria […] la poesia di Campana ci immetteva in un ritmo e in un paesaggio sin lì sconosciuti; e caso mai il fascino che ne derivava, immune contro ogni apparenza da idee di maledettismo e simili, fondamentalmente salutare, ci spingeva a voler sapere di più, in un secondo tempo, sull’uomo e sulla sua sorte…»

Molto presto la delusione del poeta respinto e ignorato si farà rabbia e poi mania di persecuzione. Per testimoniare questo basta citare poche righe vergate a Marradi il 23 gennaio 1916 e indirizzate a Giovanni Papini, cui, tempo prima, si era affidata l’unica copia de Il più lungo giorno, il prototipo dei Canti Orfici che il poeta fu costretto a riscrivere a mente: «Se dentro una settimana non avrò ricevuto il manoscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni sono verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò».

Campana si sentiva perseguitato dalla stessa indifferenza e dallo stesso accanimento che molti altri grandi artisti hanno patito in vita, fino a farne derivare la dissipazione di ogni energia e volontà, valga l’archetipo universale di Vincent Van Gogh. Quello che resta da fare alle nuove generazioni è lo stesso che fece la curiosità di Sereni e dei suoi coetanei: giudicare solo dall’opera. Già prima della sua morte, Campana diventerà una figura ideale e fantasmatica, paradossalmente circondata da quell’aura sacra che in vita aveva provato a imporre e sempre più tristemente a esigere dai suoi contemporanei. La sua figura continuerà a comparire sibillina e sardonica nella fantasia di chiunque si sia formato sul suo libro-vita:

[…]
– Niente pace senza guerra – si sporge
uno tra le file degli andanti e venienti.
Rieccolo l’addetto al fuoco dei mortai
il più gradasso di tutti di tutti il più fanfara
nemmeno fosse il capo
delle artiglierie di tutte le Russie:
certo Campana da Marradi,
esperto in cariche aggiuntive
poeta a tempo perso. […]

Vittorio Sereni, da Esterno rivisto in sogno, in Stella variabile

 

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