“L’uccello dipinto”
di Jerzy Kosinski

Un capolavoro sulla «banalità del male».

di / 5 maggio 2016

l’uccello dipinto copertina Flanerí

La letteratura sorprende sempre, spesso più con perle che vengono dal passato che con le novità. A sfiorare il capolavoro sono stati ultimamente libri bellissimi come Suite francese di Irene Nemirovsky e soprattutto Stoner di John Williams.

Quando fu pubblicato nel 1965, L’uccello dipinto (minimum fax, 2015) suscitò, nel mondo della Guerra fredda, reazioni diverse ed estreme. Una parte dell’intellighenzia ebraica, tra cui Elia Wiesel, apprezzò il romanzo di Jerzy Kosinski, ebreo polacco di Lods, emigrato negli Stati Uniti nel 1957. Proprio dalla patria polacca l’autore ricevette accuse, denigrazioni e insinuazioni di propaganda finanziata dagli USA per esortare gli ultimi ebrei a lasciare la Polonia. Ma anche in America non mancarono le accuse di plagio e falsificazione.

L’uccello dipinto è un libro che, a leggerlo, fa ribollire dentro un senso d’istintiva rivolta contro le ingiustizie piccole e grandi della Storia. Narra l’odissea di un bambino di poco più di sei anni, messo in salvo, di fronte alla marea montante delle persecuzioni razziali, dai genitori in una sperduta e mai nominata campagna dell’Europa dell’Est. Dapprima destinato a dei genitori adottivi, con il venire precocemente a mancare la madre di questa coppia, il piccolo protagonista, un Rosso Malpelo dai capelli corvini e dalla carnagione olivastra, segni di una diversità avvertita sulla propria pelle di ebreo, vittima degli stessi pregiudizi e superstizioni del personaggio verghiano, in un paese di biondi dagli occhi chiari, si vede ben presto costretto a cercare ricovero di villaggio in villaggio, imbattendosi via via in falsi protettori dal volto di sadici aguzzini.

La violenza striscia silenziosa sotto la calma apparente della campagna, salvo poi esplodere improvvisa e feroce. Il realismo di questo romanzo è caratterizzato da una violenza sorda, talora terribile: angherie, percosse, sadici giochi di resistenza fisica e psicologica. Questo mondo, impervio e crudele, non conosce attimi di tregua. La spirale di odio e ignoranza è sempre più terribile in queste pagine squarciate da una disumanità vorace, libera da leggi e costrizioni, perché la guerra è un potente soggetto narrativo, fatto com’è di conflitti e di umanità messa alla prova in situazioni estreme.

È un prezioso, amaro, brusco e tagliente mosaico di poveri e perdenti che approfittano del vuoto per sfamare la loro magra di riscatto, prima di ricomparire tra le pieghe della Storia: dalla vecchia megera Marta ad Olga la Saggia, una sedicente guaritrice  («Mi chiamava il Nero. Da lei appresi per la prima volta che ero posseduto da uno spirito maligno acquattato dentro di me come una talpa in un cunicolo profondo, e della cui presenza ero ignaro».); dal mugnaio geloso a Lekh, il venditore di uccelli, che per sfogare la sua frustrazione, sceglieva l’uccello più forte e lo pitturava con vernici puzzolenti di diversi colori, l’uccello così dipinto «andava da un capo all’altro dello stormo, cercando invano di convincere i suoi simili che era uno di loro», per poi cadere morto, ferocemente attaccato dagli uccelli del suo stormo; dall’abominevole cattiveria dell’agricoltore, cinico torturatore, al prete. L’accumulazione di odio ed efferatezza di un’umanità in letargo è parossistica.

Per arrivare al cuore dei lettori, l’autore ci arriva con un’onda lunga a-sentimentale che non procede oltre la lettura. Anche i paesaggi prendono il sapore ferrigno del realmente accaduto. La scrittura sembra scaturire da quello stesso furore che spinge il piccolo protagonista a fuggire dalla disperazione con l’unico conforto della sua «cometa», «un barattolo da un litro aperto a un’estremità e con tanti forellini praticati con un chiodo sulle pareti. In cima al barattolo, a mo’ di manico, si agganciava un metro di filo di ferro […] La si riempiva con ogni tipo di combustibile a disposizione, sempre tenendo qualche brace sul fondo». Fungeva sia da stufetta portatile che da fornelletto per cucinare, ma soprattutto era «una protezione indispensabile dai cani e dalle persone». Questo oggetto è essenziale per il piccolo dall’aspetto zingaresco che non può neppure sperare nell’intervento salvifico di una qualche entità superiore: «Ora capivo tutto. Mi rendevo conto del motivo per cui Dio non voleva ascoltare le mie preghiere […] Ero nero. I miei occhi e i miei capelli erano neri come quelli di questi calmucchi». Il suo personaggio del tutto autobiografico ci porta dentro l’incubo reale di ogni giornata in modo crudo, diretto, senza giri di parole.

La definizione di un rapporto con la diversità passa attraverso il rifiuto, la violenza, l’odio e la cattiveria, ancor prima che attraverso la conoscenza. Conta solo l’apparenza, il colore della pelle e dei capelli. Il protagonista per questo è un essere senza futuro. La sua esistenza è come una busta di plastica vuota che vola nell’aria. Non può integrarsi nel mondo. Volente o nolente, è isolato dalla società e da se stesso.

È un romanzo molto duro, a volte insopportabile. C’è un pervasivo senso di rassegnazione, quasi a sottolineare l’impossibilità di penetrare le ragioni ultime delle cose, di trovare un significato alla cosiddetta «banalità del male» che ha ispirato molta letteratura sul nazismo. Ci si trova dentro il nucleo della tragedia umana, scavando nel misterioso intreccio che lega animali umani e uomini animali, anzi uomini che si comportano come vere e proprie bestie: «A un tratto mi sentii come l’uccello dipinto di Lekh, tirato da una forza sconosciuta verso gli animali dello stesso stampo».

L’uccello dipinto è un libro di erratica e inesauribile densità, vorticoso a dispetto dell’apparente lentezza della prosa grazie al modo essenziale con cui l’autore riporta la successione dei vari eventi traumatici. È una spietata autobiografia collettiva, che tratta una materia incandescenza, metafora della condizione umana, scritta da uno scrittore di talento inseguito dall’ombra della tragedia, alla costante ricerca di se stesso. Come l’eroe omerico, tornato a casa, scoprirà di non essere più lo stesso, quando alla fine i suoi genitori lo ritroveranno, si renderà conto che tornare a casa è impossibile perché siamo noi e i nostri occhi a essere cambiati per sempre. Nulla, di lì in avanti, sarebbe mai più stato lo stesso.

 

(Jerzy Kosinski, L’uccello dipinto, trad. di Vincenzo Mantovani, minimum fax, 2015, pp. 325, euro 13,50)
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LA CRITICA

L’uccello dipinto racconta di come sia difficile stare dentro un presente che urla tutto lo sgomento di fronte alla più scandalosa delle domande: perché l’uomo continui ad accanirsi contro se stesso e i suoi simili.

VOTO

9/10

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