“Tra me e il mondo”
di Ta-Nehisi Coates

La lettera coraggiosa di un padre che ha scontato il peso della sua pelle

di / 22 luglio 2016

Copertina di Tra me e il mondo Flanerí

Questo libro, Tra me e il mondo, è una parola. Tra tutte, al di là di tutte. Ne dischiude parecchie, altre le lascia contratte, a contarsi i granelli. Ma il gomitolo di ognuna e la matassa verso cui sfilano, chiedono solo di sfociare in lei. E la parola è “corpo”. Salmodiata come un mantra, con una lingua di scalpello e di troppe cicatrici. Dotazione innata, scenografia più o meno involontaria delle nostre ombre, il corpo, quello stesso corpo scontato che appanna i riflessi di tutti i minuti, quel corpo che molti credono soltanto uno spartito da riscrivere, per altri è un privilegio al vento. Per altri, è un rischio pari al proprio peso.

Ta-Nehisi Coates, giornalista afro-americano di Baltimora, sa che sul corpo si disputa l’insieme di quello che ha da dire. E lo fa con Tra me e il mondo (Codice Edizioni, 2016, traduzione di Chiara Stangalino), vincitore del National Book Award. E lo fa innanzitutto per suo figlio. Perché Samori ha raggiunto quindici anni e tanti altri ne dovrà scalare, rammendarsi le briciole e ricominciare. Coates dipana una lettera con le stoffe che ha addosso, strattonate e ricucite a forza, cardate con pazienza e poi con la foga di chi non aspetta. E minacciate milioni di volte.

Coates parla del corpo perché in un Paese come l’America, come il suo, farcito di altari e di corredi leggendari, il corpo di alcuni non è garantito. La sua integrità è frutto di un complesso algoritmo, in cui sbavare un passaggio falcia ogni soluzione. Per il popolo nero, quello a cui anche qui si è inframezzata una g di disprezzo tramutando un termine antropologico in uno schiaffo vocale, l’America non è un posto sicuro. Perché lo stesso agglomerato di Stati che si giurano Uniti ed esportatori all’ingrosso e al dettaglio della migliore merceologia democratica, non fa altro che raccontarsi un Sogno. Cesellando la Storia a proprio favore. Trascurando di essere nato da un furto. Espropriando terra e vita a chi esisteva e prosperava in quel Continente prima del civilissimo sbarco europeo.

L’America imbottisce se stessa e chiunque di quell’identica collaudatissima favola. I Pionieri inseguiti dai perfidi indiani, che avevano anche l’ardire di difendere la propria casa, che sono stati  contagiati di sano vaiolo, stuprati e convertiti perché il loro culto non era all’altezza di quello appena approdato. Ma sempre in nome della libertà. E sempre e soltanto per onorarla sono stati deportati circa dodici milioni di africani, prelevati e barattati come minerali per imbrattare di sangue il loro bianchissimo cotone. Sudare e non chiedere, sperando nella giusta razione di frustate, quella che forgia senza farti crollare. Uomini scuri, forti come bestie e per questo simili a loro. Meno delicati, quindi meno umani, spezzabili, intercambiabili. Per accrescere beni e piantagioni. E la costante sensazione di agire per il meglio.

«L’oblio è un’abitudine, una delle componenti necessarie del Sogno. Hanno cancellato dalla memoria l’enormità dei loro saccheggi; il terrore che ha permesso loro, per un secolo intero, di falsificare i risultati delle urne, la politica di segregazione, la realizzazione dei loro sobborghi. Hanno dimenticato, perché ricordare tutto questo li risveglierebbe bruscamente dal Sogno, e dovrebbero vivere con noi, qui sotto nel mondo». E invece è più facile eleggere un nemico, il lercio, il compromesso, l’avanzo scalcinato di quel brutale esistere che è meglio stia lontano. Il nero come categoria epidermica del mostro. O soltanto del perdente.

È più facile recintare il suo raggio d’azione, relegare crescita, istruzione, declinazioni del futuro in quartieri del disagio, dove qualunque mossa può tramutarsi nell’ultima. Così si è ancora più convinti che fosse quello il solo sbocco inciso. Coates ha vissuto negli intestini urlanti di una città operaia, dove tanti ragazzi neri sono morti senza troppi motivi, dove guardare un istante di più, camminare su un certo marciapiede significava sfidare il proprio corpo a restare in piedi, autorizzare qualcuno a poterlo smidollare, anche e soprattutto quel qualcuno incaricato di proteggere i comuni cittadini. Ovviamente quelli più meritevoli, ovviamente i Bianchi, che hanno sempre bisogno di sceriffi implacabili per sentirsi al riparo.

Samori ora respira i suoi anni in un posto diverso, l’America non è identica a quella di suo padre. Ma è importante comunque che sappia quanto ancora il suo Paese sia schiavo di quel Sogno, quanta fatica ha cosparso la sua strada e quanta altra ancora potrebbe servirne. È importante preservarsi, ma ancora di più leggere, comprendere, ascoltare, solleticare il dubbio e non sorseggiare storie predigerite per sciacquarsi la sete, scegliere un «costante interrogare, fare domande come si compie un rituale, fare domande come forma di esplorazione e non come ricerca di certezze».

Il corpo si scorta capendo, si rafforza anche dei colpi schivati e non solo di quelli inghiottiti. È un atto di consapevolezza quello che Coates intesse per suo figlio, ovvero della forma più alta d’amore, l’onestà di chiamare le ingiustizie per nome e non sottrarre mai chiarezza e ribadire che comunque non sarà abbastanza. «Tra me e il mondo c’è una sorta di coltre invisibile», scriveva C.S. Lewis.

Quel tanto d’ineffabile che forse resterà sempre, per Samori come per i suoi figli, per i marginalizzati come per chi si giura incluso. L’oppio del dominio sui corpi vulnerabili. L’inganno di chi vince per sentirsi libero. E resta con le zampe incastrate nel suo Premio.

 

(Ta-Nehisi Coates, Tra me e il mondo, trad. di Chiara Stangalino, Codice edizioni, 2016, pp. 216, euro 16)

 

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LA CRITICA

Coraggiosa lettera di un padre che ha scontato il peso della sua pelle. Un atto d’amore verso suo figlio per raccontargli la dura bellezza di esserci e di lottare con coscienza.

VOTO

9/10

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