“Angeli minori”
di Antoine Volodine

Quarantanove strani “narrat”

di / 3 novembre 2016

Ricordare i sogni è molto difficile, trascriverli lo è ancora di più. Portare sulla carta le esperienze oniriche, così come le turbe e i sobbalzi emotivi, è compito che soltanto i grandi narratori riescono a concludere in modo soffisfacente. Dato che il rischio di risultare astratti o inconcludenti è altissimo, la maggior parte dei tentativi finisce per sfibrare l’atto narrativo, mutandolo in un mero esercizio di stile votato al bizzarro o all’artificio di stampo borgesiano. Pochissimi sono dunque in grado di confererire alle loro opere un potenziale evocativo e atmosferico caratterizzato da bordi sfilacciati, trame inesistenti e al tempo stesso intricate, suggestioni talvolta orrorifiche talora accoglienti, ricorrenze stranianti. Pochissimi riescono a raccontare storie simili a sogni. Antoine Volodine è uno di questi.

Eteronimo di un autore francese di origini russe la cui biografia è ammantata di mistero e di multi-identità al pari della sua opera, Volodine è attivo ormai da molti anni oltralpe: si dedica alla pubblicazione di opere post-esotiche – corrente letteraria il cui manifesto del 1998, Le Post-exotisme en dix leçons, leçon onze, è firmato da un pugno di autori dietro alla maggior parte dei quali si nasconde lo stesso Volodine. Il “loro” obiettivo è svincolarsi da ogni classificazione, compresa quella di letteratura avanguardista, per dare alle stampe opere senza radici e senza direzioni, provenienti da un altrove che ha sì punti di congiunzione con il nostro reale, ma che di fatto non lo rappresenta se non sottoforma di istantanee che, come illustra Volodine, «fissano una situazione, delle emozioni, un conflitto vibrante fra memoria e realtà, fra immaginazione e ricordo».

Angeli Minori, datato 1999, è arrivato quest’anno in Italia grazie alla casa editrice romana L’orma, dopo aver conquistato il Prix Wepler e il Prix du Livre Inter in Francia. Si tratta di un’opera che la quarta di copertina e le recensioni bollano come visionaria e difficilmente classificabile, una storia sulla cui natura lo stesso multiforme narratore non esita, in prossimità della fine, a interrogarsi: «Uno strano romånce o semplicemente un ammasso di quarantanove strani narrat»? Di sicuro Angeli Minori è qualcosa di diverso dal filone distopico o post-apocalittico a cui tanti autori hanno attinto negli ultimi anni. Non è l’odissea violenta narrata da McCarthy in La strada, né la degradata metropoli che Paul Auster ha descritto in Il paese delle ultime cose. L’assenza di una trama vera e propria, così come la fratturazione della narrazione in tante unità denominate narrat, toglie al libro materia e lo spezzetta, permettendo all’autore di creare una rete di immagini in movimento il cui obiettivo è colpire in rapida successione l’immaginario, i ricordi, le emozioni e i sensi del lettore, ogni volta in modo diverso. Per cui non esiste obiettivo pedagogico, non esiste finale risolutivo e, soprattutto, non esiste un vero e proprio itinerario da seguire.

Che cos’è, allora, Angeli Minori? È un romanzo che permette al lettore, dopo cinque o sei capitoli, di non seguire più la trama (perché inconsistente) e di abbandonarsi alle immagini che l’autore proietta, un narrat dopo l’altro. L’atmosfera sembra levarsi da un mondo posto al di là del tempo e dello spazio, dove le regole fisiche e naturali hanno lasciato posto a qualcosa di simile alla magia. Accanto ai simulacri della nostra realtà (i dollari, lo spettro del capitalismo distruttivo, misteriosi campi segregativi, somiglianze col regime sovietico), si levano misteriose professioni (il regolatore di lacrime), agiscono sparuti gruppi di vegliarde immortali ed esploratori dell’ignoto e sopravvivono a stento i resti di un’umanità collassata su se stessa e ossessionata dai propri demoni. Spettri senza nome si aggirano in metropoli che ricordano la Pripjat’ spopolata dalla catastrofe di Černobyl’, in luoghi spaesanti che paiono usciti dall’ultimo trailer visionario di Hideao Kojima e in tempi diversi dal nostro presente, dove tutto è mutato tranne la propensione umana a provare (e a cercare) emozioni di qualsiasi tipo.

«I narrat lavoravano al fondo della coscienza in maniera musicale, per analogia, simultaneità, magia. Era in questo modo che agivano». Con Angeli Minori Volodine ha confezionato un vero e proprio capolavoro: un “romanzo di voci” (non dissimile, per certi versi, ai libri del Nobel 2015 Svjatlana Aleksievič) che parla direttamente al lettore attraverso le porte della percezione e che è un omaggio all’arte della narrazione attraverso la narrazione incessante, così come lo fu il lavorio di Shahrazād nell’epopea nota come Le mille e una notte. Non sappiamo chi sia con precisione Volodine nè dove ci porteranno in futuro gli “altri” autori post-esotici con la silloge a cui stanno dando i natali in questi anni, possiamo soltanto ringraziare questo autore di essere in grado di captare e trascrivere simili voci e sogni, provenienti non tanto dalle stelle cui soleva guardare un altro visionario (quel Dick così lontano eppur così presente nelle pagine di Volodine, soprattutto nelle inquietudini che attanagliano i personaggi), bensì da un altrove posto chissà dove e chissà quando.

 

(Antoine Volodine, Angeli Minori, trad. di Albino Crovetto, L’Orma, 2016, pp. 213, euro 15)
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LA CRITICA

Opera massima del post-esotismo, Angeli Minori è un libro diverso da tutti gli altri. Trova la sua forza e la sua originalità nel senso di straniamento che provoca nel lettore: ogni narrat proviene da chissà dove e ammalia con la sua assenza di senso tanto quanto irretisce attraverso lo strambo e alienato immaginario che evoca.

VOTO

9/10

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