“L’outsider” di Colin Wilson
Catalogo degli incompresi della letteratura moderna
di Federico Iarlori / 21 novembre 2016
Pensate a un aspirante scrittore inglese di ventitré anni, solo al mondo e senza un soldo. Immaginatelo mentre dorme in un sacco a pelo sull’erba di un parco londinese o mentre passa le sue giornate nella sala lettura del British Museum, nel tentativo di scrivere un libro su Jack lo squartatore. No, non sto parlando del protagonista di Fame, il romanzo del premio Nobel norvegese Knut Hamsun, ma di uno scrittore in carne e ossa. Il suo nome è Colin Wilson e, purtroppo o per fortuna, quel libro che sarebbe dovuto essere il suo esordio (Ritual in the Dark) lo ha messo da parte per un po’, per scriverne uno molto più ambizioso, che è subito diventato un caso letterario: L’outsider (1956), un appassionante saggio ripubblicato quest’anno da Atlantide in edizione limitata per la nuova traduzione di Thomas Fazi – la prima edizione italiana era del 1958 (Lerici) e si intitolava Lo straniero.
Ad averci a che fare oggi, l’idea di Wilson non sembra particolarmente originale: rovistare nelle biografie e nelle bibliografie degli scrittori otto-novecenteschi con l’obiettivo di tratteggiare in maniera metodica e minuziosa la figura di un particolare “tipo psicologico”: l’outsider, appunto, il visionario incompreso, colui che a causa dell’odio verso se stesso e verso una società con cui non riesce a riconciliarsi, decide autonomamente di vivere ai margini o, nel peggiore dei casi, di ricorrere a metodi estremi per superare la propria inadeguatezza.
Prima di iniziare a leggere questo testo di circa 400 pagine – e conoscendone solo le premesse programmatiche – ho subito pensato a Un uomo che dorme (1967), la cronaca di una rinuncia al mondo firmata da Georges Perec. Poi a Van Gogh il suicidato della società (1947), il meraviglioso testamento spirituale di Antonin Artaud, nel quale l’autore marsigliese – anche lui, come Van Gogh, internato in una clinica psichiatrica – attacca la società perbenista, rea di volersi sbarazzare degli artisti visionari etichettandoli come malati di mente. Infine, ho pensato a Bartleby e compagnia (2000) di Enrique Vila-Matas, una raccolta di vite esemplari di artisti e scrittori che a un certo punto, proprio come il personaggio del racconto di Melville che dà il titolo all’opera, hanno deciso di dire no, di smettere, di cambiare vita. Il saggio di Wilson sembra l’archetipo di tutte queste opere, la fonte originale, la premessa metodologica; una panoramica ricca e documentata sui diversi tipi di outsider, scritta con una lingua accessibile e divulgativa, ma senza rinunciare alla vena poetica (implicita) propria di chi – difficile dire il contrario nel caso di Wilson – nel parlare degli altri, parla un po’ anche di se stesso.
L’uomo che dorme di Perec, che per me è l’outsider per eccellenza, nel libro di Wilson non c’è (per ovvi motivi cronologici), eppure potrebbe essere inserito a pieno titolo nella categoria che l’autore definisce “uomo-insetto”. Si tratta del primo e più basico tipo di outsider, quello “passivo”, che Wilson rintraccia leggendo L’inferno (1908), uno dei primi romanzi del francese Henri Barbusse, che rappresenta anche l’inizio della sua avventura intellettuale nel British Museum. Ciò che lo incuriosisce è un passo in cui il protagonista del romanzo, bombardato dagli stimoli erotici delle donne che lo circondano, si rende conto che il suo desiderio non sarebbe mai stato soddisfatto, neanche con il sesso. Una frustrazione perenne e un senso di impotenza tipici dell’outsider. «Non è una donna che vorrei, le vorrei tutte, e le cerco, intorno a me, una ad una. Loro passano, se ne vanno, dopo avermi dato l’impressione di essersi avvicinate a me».
Altri esempi di outsider passivi sono i personaggi di Franz Kafka: l’uomo-insetto di La metamorfosi, ovviamente, ma soprattutto il protagonista di Un digiunatore, che Wilson definisce «la sua esposizione più lucida della condizione dell’outsider», la mancanza di appetito per la vita.
Ma c’è spazio anche per gli outsider attivi. Ci sono quelli che non hanno mai capito se stessi, che credevano, cioè, «di non avere nulla e di non meritare nulla» (Van Gogh, Lawrence d’Arabia, il ballerino Nijinsky); quelli che hanno scoperto di essere outsider a causa di un “attacco” improvviso che ha sconvolto la loro vita apparentemente normale (Pierre Besuchov in Guerra e pace, il protagonista di Memorie di un pazzo di Tolstoj, Tolstoj stesso o Antoine Roquentin, il protagonista di La nausea di Sartre) e quelli che, invece, lo scoprono solo alla fine, di fronte alla morte (l’Ivan Il’ič di Tolstoj e il Meursault di Lo straniero di Camus); oppure quelli che hanno sempre saputo di esserlo e hanno agito di conseguenza: Raskol’nikov, il protagonista di Delitto e castigo, ovvero un eroe nietzschiano che detesta la propria debolezza e che cerca di combatterla con un atto estremo. Un duplice omicidio. In tutti questi casi – ci dice Wilson – «il sintomo principale è l’odio per se stessi, il desiderio di fuggire da sé».
È proprio Dostoevskij l’autore che Wilson prende a modello per il suo capitolo intitolato “La grande sintesi”. Non solo, infatti, lo scrittore russo ha esplorato nei suoi romanzi tutti i vari tipi di outsider, dall’uomo-scarafaggio di Memorie dal sottosuolo a personaggi come Raskol’nikov, Myskin (l’outsider istintivo e “fanciullesco” di L’idiota) e Stavrogin (il ribelle di I demoni), ma li ha condensati in un’unica opera: «Ne I fratelli Karamazov è riassunto tutto ciò che Dostoevskij ha imparato dai suoi esperimenti precedenti in fatto di outsider. Ci ritroviamo, in una unica sintesi, l’uomo-scarafaggio, Raskol’nikov e Myskin. Essi sono, ovviamente, i tre fratelli Karamazov: Mitja, Ivan e Alëša, che rappresentano rispettivamente il corpo, l’intelletto e il sentimento».
È un po’ deludente, a mio parere, l’ultimo capitolo di L’outsider, intitolato “Spezzare il circuito”, in cui Wilson cerca di mostrare ai lettori delle soluzioni (o tentativi di soluzione) ai problemi dell’outsider, il che, per carità, è degno di stima. Il problema è che lo fa sprofondando in una sorta di misticismo da “manuale di sviluppo personale”, che a mio parere stonano con il resto del testo. Wilson cita prima Ramakrishna e poi si lancia in una spiegazione della cosiddetta “Quarta via” di Gurdjieff, un’alternativa ai percorsi tradizionali di lavoro sull’essere: la via del fachiro, la via del monaco e la via dello yogi, ovvero la disciplina sul corpo, sulle emozioni e sulla mente. «Gurdjieff insegna che ci sono quattro possibili stati di coscienza. Il primo è il sonno ordinario (la maggior parte degli esseri umani, ndr). Il secondo è la condizione in cui il borghese comune passa la propria vita; questo stato è chiamato – ironicamente, pensa Gurdjieff – “coscienza lucida”. Il terzo è il ricordo di sé (quello dell’outsider, ndr). Il quarto è la coscienza obiettiva (il saggio, il santo, ndr)». Attraverso degli esercizi specifici – che si insegnano in alcune scuole a pagamento – è possibile evolvere e passare da uno stato di coscienza all’altro. È chiaro che, dal punto di vista della soluzione proposta da Gurdjieff, la posizione dell’outsider si ribalta, essendo lui sì in una situazione di impasse, ma molto più vicino di noi comuni mortali alla condizione del santo.
Dite che se facessimo fare qualche esercizio spirituale a Bob Dylan, andrebbe a ritirarlo questo benedetto Nobel?
(Colin Wilson, L’outsider, trad. di Thomas Fazi, Atlantide, 2016, pp. 400, euro 35)
LA CRITICA
Se siete sempre stati dalla parte degli sfigati, degli incompresi e dei perdenti, questo è il libro che fa per voi. Oltre a essere uno splendido saggio sulla storia della letteratura moderna, chiaro e accessibile, l’opera prima di Colin Wilson è una vera e propria guida alla lettura dei grandi autori e dei grandi classici della letteratura mondiale. Basta non aver paura di quelle 400 pagine…
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