SMH

di / 16 febbraio 2017

Siamo stati noi. Ci siamo presentati e gli abbiamo detto che dovevano andarsene. Siamo stati noi perché la nostra fame cannibale è più forte del loro desiderio di sopravvivenza. Siamo arrivati in moto: pochi chilometri di strada veloce e poi nei vicoli di polvere. Abbiamo parcheggiato nel garage di Alvaro e proseguito a piedi.
Erano molti anni che non attraversavamo la barriera di cemento per passare dal visibile all’invisibile. Ormai i profumi e i colori di quei luoghi erano coperti da una patina opaca che avvolgeva i ricordi della nostra infanzia.
Anche noi siamo nati con un dato anagrafico incerto, ma appena nostro padre ci ha trasferito nelle case bianche di cinquantasei metri quadri, subito siamo stati iscritti ai libri della società. Dei pochi anni vissuti nell’invisibile rimanevano alcune istantanee consumate: immagini di cucinotti separati da tende fiorate, grovigli di cavi elettrici sopra le nostre teste e sciami di bambini che corrono nei vicoli calciando un pallone.
Ad attenderci c’erano quelli della Ação Social. Sorridevano tutti. Li abbiamo incontrati su una terrazza che dall’alto domina la distesa di tetti in lamiera oltre i quali si apre l’oceano. Una decina di sedie di plastica mangiate dal sole erano disposte in circolo all’ombra di un telo sgualcito ai bordi. Poi uno di loro ci ha invitato a guardare giù, in basso, verso la baia. E allora tutti ci siamo alzati e in silenzio abbiamo guardato, come in una preghiera collettiva. «Vedete come siamo in alto?» ha detto uno di loro. «Siamo noi i primi a veder sorgere il sole».
Dall’altro lato della terrazza c’era un carretto, apparentemente gestito da un bambino: avrà avuto dodici anni e indosso una canottiera gialla con Ronaldo scritto a pennarello sulla schiena. Quando noi ci siamo seduti lui si è avvicinato reggendo tra le braccia un catino pieno di bibite in lattina; qualcuno ha pescato una bevanda e lasciato cadere qualche moneta nella tasca del piccolo.
E poi c’era la Senhora Nenê. La gatta. Era appisolata dentro a quello che rimaneva di un televisore, tolto il vetro e il tubo catodico. Ce l’hanno presentata come fosse anche lei un membro della comunità, come fosse venuta per partecipare alla riunione. «Lei è la madre di tutti noi» hanno detto «nessuno l’ha vista nascere e probabilmente nessuno la vedrà morire».
A noi è sembrata una che sa già come andrà a finire.
Dalla cartella abbiamo estratto il raccoglitore con la comunicazione ufficiale della Secretaria Municipal de Habitação: l’elenco delle persone (e delle case) e il prospetto delle nuove abitazioni che stavano già costruendo a pochi chilometri di distanza. Abbiamo aperto sul tavolo i mappali e la planimetria del nuovo quartiere e illustrato il piano di riconversione urbanistica, mentre loro ascoltavano in silenzio, facendo lievi cenni con il capo. Poi hanno parlato e sono bastati pochi scambi per rendersi conto che non c’era alcun punto di incontro. Le loro richieste erano all’estremo opposto di quanto scritto sui nostri fogli.

Qualche settimana più tardi eravamo di nuovo lì. Alvaro teneva la testa dentro ai motori ma quando ci ha sentito arrivare si è voltato verso di noi, giusto il tempo necessario per dirci di salutare nostro padre. Abbiamo risposto con un cenno e ci siamo incamminati mentre ci toglievamo la camicia dai pantaloni. La luce del mattino scaldava i tetti arrugginiti e faceva risplendere le tinte sgargianti delle magliette stese ad asciugare. Lungo la strada la polvere rimaneva a mezz’aria e poi andava ad accumularsi sulle ginocchia dei bambini. Ci correvano intorno. I loro volti lucidi di sudore.
Quando siamo arrivati alla terrazza, alcuni uomini e donne si stavano passando delle fotografie dopo averle estratte da un grosso raccoglitore. Uno svizzero, un fotografo – come poi ci hanno raccontato – aveva trascorso qualche giorno con loro e aveva scattato delle foto. Era venuto apposta da Zurigo per ritrarre i loro volti e raccontare le loro storie. Avrebbe poi organizzato una mostra, da qualche parte in Europa, per sensibilizzare il mondo in favore della battaglia che stavano combattendo. I loro volti sarebbero stati visti da centinaia o forse migliaia di persone in Europa, anche se chiaramente non avrebbe fatto alcuna differenza. Gli uomini e le donne, seduti sulle sedie di plastica, sorridevano riconoscendosi nelle foto mentre la Senhora Nenê, sempre nel televisore, fintamente assonnata, ascoltava tutto. Lo svizzero li aveva fatti posare davanti alle loro case con il braccio destro alzato al cielo e in mano una torcia accesa. Il fuoco della speranza, la celebrazione della propria identità – questo doveva essere il messaggio che il fotografo voleva trasmettere. Il fuoco della resistenza.
Le cose per noi non andavano granché bene. Le riunioni in terrazza ormai consistevano in amichevoli chiacchierate. Sorseggiavamo il mate che ci veniva offerto e insieme guardavamo il panorama della baia e della città più in basso e ci divertivamo a riconoscere i quartieri e le zone nella marea di cemento. I membri della Ação Social mostravano il sorriso e l’ospitalità di chi è abituato a cavarsela con poco ma riguardo alla nostra offerta non avevano alcuna intenzione di fare un passo indietro.
Lasciavamo sempre la moto al garage prima di incamminarci e ogni volta sembrava che al nostro arrivo Alvaro estraesse la testa dal motore per qualche secondo in più rispetto alla volta precedente. Ci aveva già chiesto di salutargli nostro padre, poi ha cominciato a chiederci come stava, anche se subito nascondeva il suo testone color petrolio sotto il cofano di un furgone e riprendeva a fischiettare. Era una melodia lenta la sua, ci è sembrata familiare. Era una melodia di note lunghe ma aveva un ritornello allegro, ed è proprio quello che sembrava trovare posto nelle cavità dei nostri ricordi. Forse l’avevamo cantato da bambini, in cerchio, tenendoci per mano. Poi, mentre salivamo ancora, la melodia di Alvaro scemava tra le voci delle donne e le grida dei bambini.
Intanto il Municipio ci teneva il fiato sul collo visto che non eravamo ancora riusciti a portare a termine il nostro compito. La maggior parte dei giorni ci svegliavamo nelle nostre case incolori e andavamo al bar del quartiere, oppure ci muovevamo nei centri commerciali e spendevamo i pochi soldi che avevamo in tasca per comprare cose inutili. Soldi che avevamo guadagnato svolgendo piccoli lavoretti altrettanto inutili.
Il nostro era uno dei quartieri nuovi, costruiti per noi. Le vie avevano il nome di alberi ma non ancora gli alberi. Come i membri della Ação, parlavamo seduti su sedie di plastica e ci dissetavamo con bevande ghiacciate. Diversamente da loro però, noi non avevamo niente per cui lottare.
Quando ci convocavano al Municipio per sapere come procedeva il lavoro, salivamo adagio i gradini del palazzo infilandoci la camicia nei pantaloni. Alle riunioni erano tutti giovani come noi. Alcuni consapevoli del proprio ruolo, altri ottusamente ingenui. Di fronte a noi c’era una prima fila di funzionari, tutti con una camiciola a maniche corte e una penna infilata nel taschino. Dietro a loro uomini più corpulenti con camicie stirate la sera prima e sciupate dal sudore della giornata. Questi ultimi parlavano per lo più fra di loro e intanto mangiucchiavano qualcosa o intingevano la mano in un sacchetto di patatine.
Una mappa dell’intera area urbana era affissa al muro e un assistente continuava a mettere croci e a circondare zone, ogni volta che uno di quelli in prima fila gli dava l’ordine. Il nostro rapporto era pieno di note e resoconti di conversazioni ma la casella per la firma del responsabile della Ação Social rimaneva ancora vuota.
Intanto la zona di nostra competenza era passata a un nuovo livello di classificazione: ancora due settimane e poi sarebbe scattata la confisca delle proprietà e l’invio delle ruspe scortate dalle forze dell’ordine. Il nostro ruolo ci era ben chiaro fin dall’inizio: la decisione era stata già presa, era solo una questione di tempo e di modalità.

I membri della Ação si sono battuti finché hanno potuto ma alla fine è arrivato il momento di consegnare la notifica ufficiale e comunicare le modalità di pagamento del rimborso che, grazie alla loro tenacia, era stato aumentato dell’1%. E con quello, il nostro lavoro era terminato. Loro ci hanno guardato senza parlare. Non c’era rancore nei loro occhi. In fondo era stato come averli accompagnati verso un destino già scritto. Qualcuno ancora sorrideva, forse non aveva capito. Qualcun altro è scappato via per vedere se la propria casa era ancora in piedi.
Tutti gli altri, tutti quelli che non sono stati sfrattati, rimarranno lì, pieni della loro fame di pancia e di dollari. Fame di coca-cola e telefoni cellulari. Fame di sole e di futuro. Così era e così sarebbe stato per sempre. Lo sapevano le melodie di Alvaro e lo sapeva la Senhora Nenê. Lei aveva visto le case costruite a mano, pezzo dopo pezzo. Aveva visto bambini nascere e con loro aveva visto l’unità della gente, persone che si aiutavano l’un l’altro. Aveva visto nostro padre partire, altri cacciarsi nei guai, altri ancora scomparire o morire in strada.

L’ultima volta che siamo andati al Municipio ci siamo fermati lo stretto necessario per prendere l’assegno e i biglietti. Erano rimasti in pochi nella sala operativa. Le mappe penzolavano dai muri e grondavano di inchiostro rosso. C’erano fogli abbandonati a terra, puzza di sudore e un generale senso di smobilitazione. Sbrigate le poche formalità ci hanno congedato frettolosamente, come si fa con i soldati quando la guerra è finita.
Usciti in strada il sole ci ha colpito forte in testa. Per un attimo il paesaggio ci è apparso assurdo e spaventoso, incomprensibile. Accecati dal riflesso dei palazzi di vetro, i nostri occhi erano impreparati ad accogliere i colori bruciati dalla sovraesposizione e le forme sghembe e traballanti. Un improvviso corto circuito nella nostra mente, una finestra attraverso la quale, per un istante, ci è sembrato di avere capito tutto o forse, più verosimilmente, di non avere capito niente. Poi abbiamo proseguito a piedi, lungo il marciapiede, ed è bastato un leggero scatto – il collo che si inclina appena, su un lato – a farci ritrovare l’equilibrio. Un cambio di prospettiva per tornare alla verticalità delle cose, l’orizzontalità dei nostri passi. Ed ecco le case, i palazzi, i lampioni, gli alberi tornano a erigersi dritti verso il cielo, e anche noi riprendiamo quella postura che ci coccola e ci permette di camminare orizzontale, senza attrito, in fila, come tutti.
Abbiamo continuato con i nostri passi e poco lontano abbiamo raggiunto un campo da pallacanestro, color mattone e recintato di verde. Al suo interno un bambino si spingeva sulle punte per tirare a canestro: suo padre gli passava la palla e lui provava il tiro. Sono andati avanti per parecchi minuti e noi siamo rimasti a guardarli senza parlare per tutto il tempo. A ogni tiro il piccolo gridava il nome di un campione di basket, entusiasta celebrava il suo mondo semplice fatto di eroi da collezionare nell’album di figurine.
A un certo punto, dopo molti tiri e pochi canestri, si sono fermati per bere da una borraccia e si sono avvicinati. Noi abbiamo sorriso, pensando che il nostro mondo non era poi così diverso dal loro, e prima di andarcene gli abbiamo lasciato due dei biglietti che ci avevano dato al Municipio.

È passato un mese, o forse di più. Stavamo girando in moto senza motivo e senza destinazione e la strada ci ha portato al parcheggio: una spianata lucida di catrame senza colori né polvere, senza sole né occhi di speranza. Siamo scesi dalla moto nel piazzale deserto, ancora pochi giorni e poi si sarebbe riempito di automobili, pullman e furgoni. A un’estremità c’erano ancora le baracche dei cantieri e i mucchi di sabbia con la quale erano state riempite le cicatrici della terra. A monte la visuale era coperta da un hotel e dai residence per gli atleti. Odore di asfalto, gli aromi delle cucine e le grida dei bambini erano ormai un ricordo lontano. Siamo rimasti a guardare i palazzi e le centinaia di finestre come bocche aperte, come occhi di un mostro, come urla disperate in cerca di aiuto.
Allora ci siamo voltati, lo spettacolo era già cominciato. Il cielo nero di Rio era sfregiato dalle luci della cerimonia di apertura della XXXI edizione dei Giochi Olimpici. Nello stadio la sincronia delle coreografie, i megaschermi a milioni di led, le aste per gli spazi pubblicitari. Le storie di sport e di casi umani da gettare in prima pagina sui giornali del mondo. Sotto il cielo di Rio la marea melmosa avanzava in silenzio ed era già salita ben oltre le nostre caviglie. E come noi, tutti, sotto il cielo del mondo, continuavano ad avanzare con gli occhi coperti dalla patina opaca che offusca i pensieri e uniforma i nostri desideri. Tutto si omologa e si scolora, si diluisce e si fonde e non ci saranno più confini, non ci saranno limiti perché non ci sarà diversità.
Fuochi d’artificio. Migliaia di piccole esplosioni e scintille terminavano la loro parabola discendente nel mare. Cadevano sulle nostre teste come i numeri gettati sul mondo dai telegiornali: i paesi partecipanti, le discipline rappresentate, gli spettatori paganti, le ore di diretta televisiva.
Noi però avevamo passato gli ultimi mesi a leggere altri numeri, i numeri invisibili: le famiglie sfrattate, le case demolite, le comunità distrutte. Migliaia di persone costrette a spostarsi. Ancora prima di ufficializzare le operazioni di sfratto, il Municipio lanciava segnali intimidatori per quelle famiglie che non si piegavano al loro volere. Senza preavviso marchiavano le abitazioni: SMH. Cominciavano a demolire le case disabitate e in quel modo mettevano in pericolo le strutture adiacenti. Le distruggevano un pezzo alla volta e abbandonavano i detriti sul posto e così facendo mutavano il paesaggio, aggiungevano disperazione, rendevano le comunità invivibili. I detriti si accumulavano e diventavano territorio di animali e malattie. La vita un passo più vicina alla morte.
Poi abbiamo notato che lungo un lato del parcheggio avevano lasciato una piccola lingua di verde. Ci siamo avvicinati, attratti da una fila di lucine fioche ed eccolo, in fondo, sopra una base di pietre e cemento, il televisore. Led colorati lungo i bordi e al suo interno piccoli oggetti e peluche, bambolotti di plastica e, sul fondo, una foto della Senhora Nenê appisolata dentro al televisore. Aveva aspettato che venisse demolita l’ultima casa e poi si era lasciata morire.
Siamo rimasti in piedi insieme ad altre persone che si erano avvicinate, incuriosite da quel piccolo mausoleo kitch. Dietro al televisore, su un’asse di legno, qualcuno aveva scritto: In memoria di Nostra Senhora Nenê, che ha combattuto insieme a noi ed è morta insieme a noi. Proteggici dal nostro mondo.
Infine, quando ancora gli ultimi fuochi facevano brillare il cielo, siamo risaliti sulla moto, abbiamo raggiunto lo stadio, e ci siamo messi in fila.

 

Marco Piazza (1973) Nato a Como, vive a Roma. Lavora come forestale su progetti in ambito internazionale. Ha pubblicato come autore e traduttore su riviste e online. Si è classificato terzo all’edizione 2013 del concorso 8×8. Ha pubblicato il racconto “Maschio alfa” nell’antologia L’amore ai tempi dell’apocalisse – Racconti da un futuro prossimo curata da Paolo Zardi per Galaad Edizioni (2015). Cura il blog Country Zeb.

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