L’indio

di / 23 marzo 2017

Questo labirinto affatica le mie notti con il volto di un indio che tenta la via.
Una figura indigena che si smarrisce tra ponti e colonnati come alla vana ricerca di un consanguineo, di un verbo conosciuto. Lo osservo salire torri, attraversare porte, ridiscendere scale per ritrovarsi fatalmente sempre lì da dove era partito.
Nel dormiveglia guardo talvolta la sua ombra stagliarsi netta sui muri, costruire percorsi che anelano alla libertà o all’oblio, capita di vederlo scavalcare recinzioni, arrampicarsi sulle trabeazioni di alti templi come fossero rami di foreste del Kashmir e restare lì per ore.
Vedo così l’indio predire nuovi giorni e nuove notti, eternamente.
Affermare la sua pazzia tra giri di colonne e vie maestre.
A volte capita ch’egli non invada i miei sogni ma che scompaia invece tra le rovine di basalto, lasciando dietro di sé scale e portoni che si susseguono in solide geometrie. E vaga, si smarrisce e smarrisce se stesso, alla ricerca di nuove forme e prospettive, eppure egli finisce sempre con il tornare a me, alle mie notti, e le sue febbrili corse ricominciano daccapo per arrestarsi solamente sull’orlo di un precipizio, su alti muri di porfido, davanti a torri invalicabili che gli negano il passo più ardito.
Molti sono quelli che percorrono il carcere ma l’indio non parla con nessuno di loro. Ho creduto a lungo che fosse muto quando all’improvviso lo sentii emettere un verso, poco più che una parola scomposta. Era un accento acuto, lo si sarebbe detto di stizza, come quello di un animale.
Credo ch’egli non conosca l’articolazione del linguaggio, o forse un giorno la conobbe finendo qui dentro per dimenticarla. Ignora le strutture sintattiche, i fonemi, le declinazioni e i sintagmi, e la sua lingua si produce in strane forme che danno vita a urla o grida senza senso, vocaboli privi di significato. Ciò nonostante sa di Dio e del carcere e questo forse basta a salvarlo.
Nel sogno si è formata una lingua primigenia, perduta, come quella di popoli aborigeni o amazzonici, fatta di suoni sfranti, ma esclusi questi momenti egli tace tutto il giorno, rimane in silenzio finché vinto dal suo incedere frenetico e appassionato non si abbandona alla vertigine, finché non sviene a fianco a statue di dannati e imperatori, in matronei abbandonati, tra fregi e capitelli.

Al crepuscolo (il mio crepuscolo) dei passi sordi mi rivelano la sua presenza e mi accorgo che il sonno ha conquistato nuove ore del giorno; la prigione è diventata l’unica realtà accettabile, condanno adesso il sole, la veglia e la libertà come una menzogna.
E chissà cosa sogna l’indio?
Egli sogna di labirinti, dei nascosti tra foreste e templi, di Shiva, di Vishnu, del modo primordiale delle cose.
Non passa giorno senza che egli non esprima ciò che vede, lo fa con ampi gesti delle braccia e delle mani, con le dita disegna in aria gli archi che ha appena osservato, il petto si gonfia fin quasi a scoppiare nell’immaginare un portone varcato poco più in là, si getta a terra per descrivere chissà quali magnificenze o rovine scorte di ritorno da una delle sue fughe, riproduce con tutto il corpo un edificio, i nervi si tendono nel raffronto con le pulegge, le gambe diventano colonne di solitari portici.
Fa così del suo corpo un vocabolario universale, la lingua non serve e attraverso questa pantomima fatta di gesti e di suoni scopro che il carcere tende a riprodurre all’infinito le sue architetture, incede nella ripetizione e nell’orrore di marchingegni e volute come fosse un caleidoscopio di immagini in bianco e nero.
Aspetto che l’indio torni a pervadere i miei sonni, così come il Sol Invictus pazientava che i suoi messi, inviati ai confini dell’impero, tornassero a riferire di contee e province perse tra il Gange e il Danubio; ma le assenze che una volta erano rare adesso si sono fatte abituali, i giorni sono divenuti settimane, le settimane mesi e anche questi ultimi finiranno presto col diventare anni.
Alcuni uomini si fermano davanti a lui, come fosse quella statua d’Apollo che all’estrema periferia del carcere battezza neonati, attendono che un suo gesto, un movimento improvviso dei muscoli gli riveli il destino che li attende. Si crede che prima o poi, in una delle sue molteplici descrizioni, egli rivelerà il modo per uscire da questa prigione, giacché ogni sistema ha in sé una falla, un errore che ne vieta la perfezione assoluta.
Un tempo accadde che una sua mossa tesa a indicare i ruderi di un pantheon nel vicino settentrione fu scambiata da taluni come un invito al suicidio, all’estrema forma di liberazione. In quelle notti capitò di scorgere uomini e donne lasciarsi cadere giù per le scale, darsi la morte per mezzo delle fiere che ci angustiano, precipitare dalle piattaforme e nel vuoto per assurgere a quel segreto ordine.
Ciò aprì il problema sulla retta interpretazione da dare a quelle astruse descrizioni di statue, genti e vie.
Per questo motivo alcuni presero ad applicare la kabala all’indio, la metafora e i sistemi combinatori; così la matematica e l’allegoria divennero la chiave per decifrare i suoi gesti. A oggi, nella prigione, prevale il cosiddetto “naturalismo visivo”; con ciò si intende che non v’è alcun significato nascosto nei suoi movimenti, i quali non sono altro che il resoconto dei viaggi compiuti tra lo zenit e il nadir del carcere.
Ma se anche ciò fosse vero, chi è in grado di dare una traduzione esatta delle sue azioni? Ogni nostra interpretazione non è che una visione imperfetta e personale della sua; forse laddove intendo un tempio v’è in realtà una strada vuota, dove un sepolcro una fontana, dove un obelisco una sinagoga.
So di carcerati che venerano questo indigeno incapace di parlare, lo idolatrano ma quasi di nascosto, da lontano, timidamente; la speranza loro è sempre quella di scorgere, tra una descrizione e l’altra, il modo di fuggire questo luogo.
Tale speranza diede ad alcuni uomini il coraggio necessario a intraprendere quella colossale opera che qui nel carcere prende il nome di Desmoteriogramma: la realizzazione di una mappa del Desmoterion, della prigione, basata sui gesti dell’indio. Scelsero di fissare su pietra ciascun dettaglio che quello elencava, in modo che nulla andasse perso o dimenticato, e il carcere ebbe infine la sua oscura geografia fatta di ponti levatoi, epigrafi, minareti, trabeazioni, argani, mitrei.
Ma a ogni nuova mossa che fa l’indiano aumentano le geometrie da riprodurre, aumentano i corridoi, le sculture, i pronai, gli altorilievi; sono forse l’unico ad aver compreso che il Desmoteriogramma (o il carcere, che è lo stesso) è un universo fatto di segni e simboli che non hanno mai fine e che di volta in volta si decuplicano, è un filare confuso di linee e grovigli, vie e cunicoli che si accumulano ormai disordinatamente da una parte all’altra della mappa, ad infinitum.
Molti si spacciano per l’indio, parlano di costruzioni in cui all’occidente subentra l’oriente, con voce menzognera giurano di statue alte come torri, di condannati dal volto cinereo, di piramidi sudamericane sulle cui vette stanno il serpente e l’aquila, testimoniano la graduale scomparsa del marmo e del porfido a favore del fango e del legno e insieme a questi falsi profeti anche le mappe si sono diffuse come altrettante eresie; mentono e affidarsi a esse significa perdersi in nuovi labirinti. Queste ricoprono muri, volte, sacrari, io stesso ho osservato un edificio cubico le cui pareti illustravano il carcere.
La mappa del Desmoterion si trova anch’essa su un muro che cinge ai quattro lati un pinnacolo, che si erge più in alto di tutto il resto. La mappa per adesso ha coperto solo un lato, un giorno forse finirà per ricoprire anche lo stesso obelisco con le sue strane architetture.
Questo luogo ormai da tempo mi ricorda Venezia, le passeggiate nei vicoli stretti tra il mattone rosso e i marmi, le genti d’Africa e d’Asia che attraversano i ponti della città per raggiungere il porto e nuove mete, l’aggirarsi tra i monumenti, svagato, di poeti e pittori da Grand Tour, poi le chiese, le balaustre, i gradini che portano continuamente su e giù i suoi abitanti, dimenticandoli in qualche via o in qualche piazza.
Ma la storia, che è essa stessa un labirinto e ama ripetersi, ci avverte che le colonne, i porticati, le torri, i ponti sospesi del carcere sono le stesse colonne e porticati e torri che vediamo riflettersi nella laguna di Venezia, ma visti al contrario, come in uno specchio. E se per fuggire da Venezia basta dirigersi verso l’esterno, forse per trovare l’uscita dalla prigione è sufficiente inoltrarsi al suo interno, sempre più, finché il centro e l’uscita non combaceranno in un solo punto.

Ho perso fiducia in quell’artefatto umano che moltiplica le nostre angosce. La salvezza non è nel Desmoteriogramma o nell’indio ma nei carcerieri. Il loro volto assomiglia a quello di grandi maschere greche o romane, il sorriso che si allunga come una smorfia per tutto il viso, i capelli che si arricciano sulla fronte e sulle tempie, i grossi occhi incavati e scuri.

Ognuno di noi attende, segretamente in se stesso, di pagare per una colpa che non conosce perché sa che la libertà è un’impostura che non ci è concessa, e anche l’indio, chissà, forse non starà tracciando con le sue mani mappe e resoconti ma solo la strada per raggiungere, sotto un portico o in qualche minareto, il suo Carceriere.

 

Alessandro Di Bona (1987) è nato a Roma. Laureatosi alla Facoltà di Filosofia di Roma La Sapienza, lavora come giornalista di politica e ambiente. È rappresentato dalla Rita Vivian literary agency e i suoi racconti sono attualmente in visione presso gli editori.

 

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