“Spirit” dei Depeche Mode

Nuova linfa per la band inglese

di / 24 marzo 2017

Nel 2005, Playing the Angel ci mostrava un gruppo ancora ispirato, forte di una maturazione passata per la svolta pessimista di Black Celebration, il capolavoro Violator, l’addio di Alan Wilder, i problemi esistenziali di Gahan sfociati in vari tentativi di suicidio e la rinascita con Ultra. Artisti che sapevano maneggiare la propria materia con genio e mestiere. Poi, due passaggi a vuoto (Sounds of The Univers, Delta Machine) sembravano il presagio di una fine lenta e dolorosissima, un auto accanimento, l’ostinazione nel tenersi in vita pur sapendo di non aver più molto da dire. Spirit, quattordicesimo album in studio dei Depeche Mode, è una boccata d’aria. Non un lavoro che probabilmente rimarrà impresso nella coscienza collettiva, ma qualcosa che ci mostra come poter fare un album anche dopo trent’anni di carriera senza risultare forzatamente banali. Chiedersi cosa possa dare un gruppo quando arriva nella fase avanzata della propria carriera, quando sembra uscire direttamente dal proprio passato scollegato dal mondo musicale contemporaneo, è un esercizio interessante per vedere come questi si muovano in un contesto che non è più il loro. Basta prendere i coevi U2 o i New Order. Gruppi che si portano appresso il proprio nome come il brand di una multinazionale e che vivono esclusivamente per quanto hanno fatto in precedenza, e che continuano a sfornare album privi di senso, accompagnati da una sensazione che spazia tra la tristezza e il disgusto. Persone che si guardano allo specchio e non vogliono accettare le rughe o la perdita dei capelli. Ecco, l’impressione era che i Depeche Mode si fossero incamminati verso quella direzione: dei dinosauri presi e spediti in un futuro remoto. Spirit ha qualcosa al suo interno che tiene la band inglese ancora in vita – quantomeno da un punto di vista musicale, a dispetto forse di liriche non sempre all’altezza. Un modo di auto intendersi e di manifestare le proprie pulsioni artistiche esplicato in una tensione che percorre l’intero album senza cali. Perché Spirit suona come il risultato di una reale necessità artistica, non un prodotto esclusivamente commerciale per promuovere un tour auto celebrativo simil U2, dove il passato esplode con veemenza e non c’è spazio se non per la propria mitologia. Si passa dal piano di “Going Backwards” a “Where’s the Revolution”, buon singolo privo però dello smalto dei suoi predecessori illustri (“Personal Jesus”, “Enjoy the Silence”, “Precious”) e intriso dell’inquietudine Brexit-Trump; dalla ballata “The Worst Crime” al dittico “Scum”-“You Move”, due brani che incarnano l’essenza più pura dei Depeche Mode e che anticipano “Cover Me”, dove sembra che David Gilmour faccia irruzione per accompagnare la voce di Gahan. Dal canto funereo di “Eternal” a “Poison Heart”, una stramba intepretazione di rockabilly suonata nei club londinesi negli anni 80, si corre verso “So Much Love”, dove ci sono i Kraftwerk se avessero scritto musica per uomini e non per robot. Il classicismo à la Depeche Mode di “Poorman” e “No More (This Is The Last Time)” arrivano prima di “Fail”, tra i pezzi più riusciti dell’album, una sorta di collaborazione con Vangelis per un nuovo ipotetico Blade Runner. Spirit, in definitiva, è un album anni ’80 scritto nella seconda metà degli anni ’10 da gente che ha segnato l’estetica musicale degli anni ’80. Un lavoro fatto con grazia e con la sana consapevolezza di non dover cambiare in alcun modo le sorti della musica senza però ricorrere a trucchetti dozzinali e melensi.

(Sprit, Depeche Mode, Synth-Pop)

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LA CRITICA

A quattro anni dal dimenticabile Delta Machine, la band guidata da Dave Gahan esce con un nuovo lavoro che allontana gli spettri di un possibile declino artistico. I Depeche Mode sono ancora vivi.

VOTO

6,5/10

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