Tempesta di stelle

di / 27 aprile 2017

Dieci anni dalla morte.
Mia nonna che parlava al Cristo cerato delle chiese, alla bocca delle valli nissene le quali gracchiano, confuse, nell’Aldilà. Maridduzza, lei, ammaestrava lo scirocco, quando china nel cucito ci ramazzava le mani stimmàte sino a che lo ammazzava. Poi, il tempo immoto, quello che conduce nella bara, senza anticipazioni, le aveva stutàto lo spirito. Spento. Silente. Morta.
Ogni notte, a letto, a cinque anni dalla dipartita, con in mano il crocifisso, chiamavo Dio ché me la facesse vedere da fantàsima, o che mi riportasse da lei, negli Inferi o nella gola nera del Mediterraneo, era lo stesso. Ho perduto solo preghiere buie, insieme all’anima passata, quella adolescente, di ginocchia scotennate dalla terra murata e di mosche buie dei valloni, dove andavo a riflettere; essa mi si stingeva gradatamente. Tuttavia mai il ricordo vivente di Maridduzza. Che invece rimaneva acceso, come il profumo degli agrumi azzannati nella pioggia immacolata e poi lungo la mia lingua aperta per bestemmia durante un acquazzone. Me ne andavo, al sesto anno, nottetempo, tra le cosce del Mediterraneo per sentirne il mugghiato, per capire se una morta scegliesse il mare nel quale trasformarsi in anima o acqua. Si diceva, quando ero picciriddu: le nonne dormono sott’acqua.
Nènti. Mi rispondevano solo i cani oppure le cagne che miagolavano come gatte incendiate sotto i rovi rugginosi annichiliti dalle maree. Mi atterrivano i latrati delle dune. E mi ritorcevo come una statua buia nello scuro stesso perché mia nonna mi parlasse.
Il buio non è un cane. Lei m’aveva cresciuto dalla morte della mia ombra, fino ai diciotto anni, quando una specie di batterio decise di cannibalizzare il corpo di lei mangiandosene le carni, dove aveva germogliato la piccola cosa immateriale, l’anima defunta. Mendicavo così la resurrezione di lei, nelle strade buteresi, ai diavoli i quali sorvegliavano le chiese. Eppoi domandavo ai preti spiritati, senza fede, che genuflessi richiedevano di nuovo accoglienza di sacramento attorno al cortile della Basilica. Tutti erano però piangenti: cristiani e soprannaturale bestiame, tutti perché non morissero. Così impazzato m’arrampicavo in cima al cornicione pietroso del Comune e vanniàvo il nome della nonna e il vento lo strangolava sino a farlo piombare nel cimitero. E l’aria turbinosa rimaneva confitta, come una tempesta minuta, vicino alla sua lapide, affinché scannasse la terra fino a scuoterla dall’Aldilà. Dopodiché, giacché il territorio si manteneva immoto, procedevo verso la mia camera, sconfitto.
Nella tenebra di questa camera, oramai magro come uno scheletro a causa del bilìo, mentre impugno un arancio divelto dai miei morsi, fisso ogni notte la luna e da essa traggo il costante nutrimento prima di concedermi al sonno. Il sonno che mi fa vedere la carne di mia nonna non più coperta dall’antichità della fossa, che me la mostra come quando vide, frìsca, il suo primo Cristo apparso. L’addormentamento che mi fa apparire Maridduzza senza faccia mentre si volta in mia direzione con le mani trasparenti e nell’atto della carezza poi desistere finché talìa un firmamento metà porpora metà stellato. E subito, sempre, intra il sogno domandarmi, impaurito, se ci aspetta il Bene o il Male. Tutte quelle stelle però sono potenti, e un giorno di certo macereranno mondi a partire dalla mia ombra per fermarsi al soffitto. E il soffitto si spaccherà come le mie mani vittima delle ossicine appuntite che si fanno spazio in mezzo alla carne. Non mi sveglio alla mattina, solo sotto tenebra. Il tavolo della camera è ingombro di bucce nere. Mi affaccio, e di là dalla finestra, mentre il petto addolorato sta per tendersi per sempre innanzi a sé a sgretolarsi, gli uccelli orbitano attorno ai diavoli e ai preti come per assaggiarli. Il cimitero nel frattempo scintilla vicino al mare perché nell’acqua ci finiranno tutti i defunti. L’orizzonte è lungo, come tutte le ossa incucchìate. Sbatte il vento attraverso i vetri, e la voce tremolante dei lampadari pare quella di un frate del Convento circonvicino. C’è il ritratto di mia nonna poco più in basso che oscilla pure esso. Mi avvicino per bloccarlo. Qui dentro tutte le cose tremano. Allora mi siedo, afferro l’ultima arancia a terra, e coi denti, senza requie, la divoro pel tramite di precise morsicate. Poi lento mi sollevo, e ritorno a spiare u cielu. Mi faccio il segno della croce che disturba gli acièddi, e grido alla Villa se fuori dalla tempesta fosse arrivata Maridduzza. Si sente solo quell’acqua che galleggia nell’aria. Ritorno al mio giaciglio colle ossa più pesanti della cartilagine che mi copre.
«Il ritratto risorgerà», sussurro strozzato, con la bocca didentro il cuscino, ritorcendomi come se fossi frattempo accoltellato da qualcheduno. E chiudo finalmente le orbite. Ci sarà Maridduzza? C’è invece un odore di campi incendiati. Il mio corpo spento, da così vicino, non si illumina. Butera è ombrata da Dio e diavoli e preti ora levitano alla ricerca del Creatore. Mi getto nel Cielo nìvuru ma le ossa non spezzano il corpo per farsi ali. Riposo dunque sul letto, che ora sento col sentimento di un annegato. Le stelle baluginano. Mi sforzo perché piangano in una tempesta di stelle. Ho assai freddo. Non potrò, forse, più farmi coprire?

 

“Tempesta di stelle” è tratto dalla raccolta di racconti Stelle Ossee di Orazio Labbate, uscito il 16 marzo 2017 per LiberAria.

Orazio Labbate è nato nel 1985. Ha vissuto sin dall’infanzia a Butera, Sicilia. È laureato in Giurisprudenza presso l’Università Bocconi. Romanzo di esordio: Lo Scuru (Tunué, 2014), ora studiato presso l’Università di Palermo, di Firenze e La Sorbona. Segnalato al Premio Sciascia 2016. Collabora con la rivista: Il Mucchio Selvaggio e con Il Tascabile – Treccani. Suoi lavori sono apparsi sulle riviste letterarie italiane: Nuovi Argomenti, Achab, Nazione Indiana, Il primo amore, Repubblica nomade e Fuori Asse. Sulle riviste letterarie statunitensi: PEN/America e Guernica. Ha pubblicato per 24Ore Cultura: Piccola enciclopedia dei mostri (2016).
Il suo blog è: Sicilia texana.

Stelle Ossee: Innamorati nell’Apocalisse, becchini sepolti vivi, incendiari di anime, demoni meridiani, cimiteri e atmosfere crepuscolari sono le figure e le suggestioni che animano Stelle Ossee. I racconti di Orazio Labbate evocano un territorio arcaico e ancestrale, in cui le tradizioni più tipicamente meridionali, legate al mistero e al sacro, trovano un terreno comune con la letteratura e l’immaginario d’Oltreoceano, ideando un microcosmo archetipico, atopico e peculiare al tempo stesso. Labbate conferma l’originalità di una voce ibrida e profondamente personale e la complessità del suo universo narrativo, ispirato al Southern Gothic americano e alla migliore letteratura Siciliana, dando vita a un Sud che si fa luogo letterario, in cui si fondono le suggestioni di scrittori come Flannery O’ Connor, McCarthy, Faulkner, Poe, insieme a Bufalino, Consolo, D’Arrigo, Sciascia. Diciassette racconti che trascineranno il lettore in un mondo onirico, immaginifico e suggestivo, diciassette frecce scoccate al lato oscuro che alberga in ogni essere umano.

 

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