Protégé
di Martin Hofer / 27 luglio 2017
E alle 5.46 di questo mattino nevrastenico il sole brucia i tetti delle case del glorioso immondezzaio dove nasco e abito, fiammeggiando e spandendosi nel cielo come un enorme tuorlo d’uovo disgregato.
Io e Bellisario ce ne stiamo afflosciati sul cofano della sua Audi A3, le spalle scosse da brividi di stanchezza e da un mal di testa mortifero che picchia la grancassa in quattro quarti su quel che resta della nostra povera coscienza.
Bellisario tenta di raccontarmi un film visto di recente. Perdo il filo, sono più concentrato sui suoni che provengono dalle profondità del mio stomaco.
Forse dovrei mettere qualcosa sotto i denti, ma a quest’ora i bar sono un miraggio e penso proprio che se m’infilassi sotto la saracinesca mezza abbassata del forno di Franchino con le pupille ancora sgranate ne uscirei a mani vuote e con la faccia gonfia di ceffoni. Lì per un periodo c’ha lavorato anche mio padre. Si alzava alle quattro, dal lunedì al sabato, e giù a impastare e bestemmiare fino a tarda mattinata, quando veniva a prendermi a scuola con gli occhi stretti e rossi e un sacchetto di pizzette sotto al braccio. Ricordo con precisione il suono della sveglia, i passi sciancati che si dirigevano verso il bagno, il rimestio approssimativo di piatti e caffettiere che faceva tanto imbestialire mia madre. Mi piaceva l’idea che mio padre fosse già in piedi. Guardavo il buio fuori, attraverso i fori delle tapparelle, e giuravo a me stesso che in vita mia non mi sarei mai alzato a quell’ora per nessun lavoro al mondo. Quando usciva mi ero sempre riaddormentato da un pezzo.
Se faccio piano e non sveglio i miei potrei pure mangiare a casa, penso. Ho acconsentito a fumare la canna della buona notte, ma se Bellisario procede di questo passo i bar faranno in tempo ad aprire e richiudere un’altra volta.
«È un peccato che non sei voluto restare – dice – la situazione aveva appena ingranato…»
«Eddai Enzo, stiamo a giovedì! Devo andare a scuola, mannaggia a te!»
Bellisario stritola la mista nella cartina con aria assorta.
«E io devo andare a lavoro, cosa ti credi?»
A Bellisario piace sbattermi in faccia questa faccenda del lavoro ogni volta che ne ha occasione. In effetti un impiego ce l’ha: stagista presso lo studio di suo zio, che è commercialista. Quattro ore al giorno, seicento euro di rimborso spese, orari flessibili e un mazzetto di ticket restaurant da quattro euro e trenta l’uno. Fra poco tornerà rombando al suo appartamento di Monti, metterà su un film d’azione o imbastirà un mini torneo di Pro Evolution Soccer alla Play Station, si farà una doccia e dopo aver steso un riga generosa sul coffe table tea comprato al mercato di via Appia Nuova andrà in ufficio, dove sonnecchierà fino alla pausa caffè, prima di ammazzare il resto del tempo postando foto della nostra serata al Vicious sul suo profilo Facebook.
Finalmente accende la canna, fa due tiri e me la passa. Il mal di testa si fa strada nelle tempie. Aspiro una mezza boccata e ricaccio in gola il disgusto che mi sale dalla pancia. Vorrei soltanto infilarmi a letto e svenire secco.
«Buona, no?», mi fa.
Rispondo con un’alzata di spalle. Non ho voglia di dargli soddisfazione.
«To’, prendine un po’ – dice porgendomi una bustina che conterrà cinque grammi abbondanti – ti faccio fare bella figura».
Accetto il cadeau senza troppo entusiasmo: «Ok, grazie».
Con Bellisario va così: compari nel pre-serata, fratelli non appena la droga comincia a fare il suo dovere, e avanti così fino a mattina, quando qualcosa nel suo modo di fare inizia a urtarmi i nervi. A quel punto non vedo l’ora di liquidarlo. Certe volte mi fa persino un po’ pena. Che diavolo ci farà con uno come me?
«A proposito, chi era quella pischella che ti slinguavi davanti al guardaroba?»
«E che ne so. Una. Non le ho chiesto la carta d’identità», taglio corto.
«He he, mica scemo, lui. Ma almeno ti piaceva? Sembrava un bel pezzo».
«Era ok, non il mio tipo».
Bellisario sghignazza divertito, mi dà di gomito: «Ma sentilo! E quale sarebbe il tuo tipo?»
«Non so, era troppo secca quella».
«Troppo secca. E come la vorresti? In forma? Allora devo assolutamente presentarti delle mie amiche, un giorno di questi. Gran fighe! Tipo quelle di Victoria’s Secret. Hai presente? Bionde, tette sode… Erika e Giada, sicuro di non averle mai conosciute? Mi pareva di sì. Potrebbero sfilare per Victoria’s Secret, credimi. Dovrebbero avere più o meno la tua età. Sì, te le presento. Combino per domani?»
Provo a soffiare il fumo abbastanza forte da spazzarlo via.
«Enzì, non ricominciare. Guarda che ho scuola anche domani, ogni tanto ci dovrò pur andare se non voglio farmi segare un’altra volta. Fammi respirare anche tu. Anzi, guarda, sarà meglio che mi dia una mossa». Con il pollice e l’indice scaglio il tizzone della canna verso un gatto.
«Vabbè, va’…», mugola il musetto godereccio di Bellisario.
Sale in macchina, si guarda allo specchietto e abbassa il finestrino.
«Però te le devo presentare queste qui. Sentiamoci nel week-end».
Mette in moto e parte di gran carriera. Ormai in strada ha già avuto inizio la processione di pendolari intristiti che mi sfila davanti ogni volta che torno a casa a quest’ora. Forse è una mia fantasia, ma ho sempre l’impressione che mi guardino con occhi solidali, come a dire: «Eh, povera creatura, così giovane e già fai parte dei nostri».
E invece in cuor mio so bene che anche oggi non combinerò un bel niente. Niente scuola, niente studio, di lavoro mai vista l’ombra, nessuna attività cerebralmente rilevante per le prossime ventiquattro ore. L’unica cosa di cui mi dovrò preoccupare nel breve periodo sarà rientrare senza farmi beccare dai miei e non rispondere al telefono di casa fino all’ora di pranzo, quando tecnicamente dovrei essere di ritorno da scuola. Nel mezzo, galleggerà una poltiglia di azioni minime, finalizzate perlopiù a riportare in asse l’emicrania e la carcassa guasta che mi ritrovo in dote al termine di questa notte, che come tante altre notti mi ha ingoiato vivo per risputarmi fuori come un avanzo indigesto.
A casa di Lucio, ore 21. Ho dormito tutta la mattina, mi sono alzato, ho tirato giù alcune compresse che davano l’impressione di fare al caso mio, ma che forse ho sopravvalutato, ho acceso la televisione e ho ascoltato a occhi chiusi due puntate di Forum e una televendita che reclamizzava un attrezzo per tagliare le verdure a cubetti finissimi. Alle 14 è tornato mio padre dal suo nuovo, ennesimo lavoro – venditore di contratti porta a porta per l’Enel – abbiamo mangiato insieme una pasta col tonno e due sofficini, «Hai una faccia – mi fa – a che ora sei tornato?», «Presto, ma stamattina a scuola non mi sentivo granché. Mi sa che ora vado a farmi un riposino», e così per il resto del pomeriggio non ci sono stato per nessuno.
Difficile da credere, eppure anch’io certe volte mi faccio schifo da solo, improvviso discorsi da adulto, specie quando riapro gli occhi dopo ore d’incoscienza, ritrovando fuori dalla finestra il quartiere incendiato da un sole che non è più un focolare che accende, ma un tizzone che divora le ceneri rimaste. È allora che sollevo interrogativi sulla mia condotta, sugli espedienti che ho brevettato per scivolare senza sbucciarmi. Ma poi vedo gli altri, mia madre che si spacca la schiena otto ore al giorno, mio padre che riesce a malapena a tenerselo, un lavoro per otto ore, Bellisario, i miei compagni che si rodono il fegato per un’interrogazione di latino, e allora concludo che non va poi tanto male, che ce n’è ancora in abbondanza di tempo per avvelenarsi.
Sul divano con Lucio, dicevo, a guardare una partita di Europa League con un paio di Moretti sul tavolo e l’erba di Bellisario a macinare dentro il grinder.
Parliamo della chiusura di un kebabbaro sulla Prenestina, di quanto sia legittimo finire Silent Hill consultando le soluzioni su Internet. Parliamo di niente, e nel frattempo ci lasciamo cullare dalle poche azioni salienti che possono offrirci due squadre come il Braga e lo Shakhtar Donetsk.
Lucio e io siamo cresciuti insieme, siamo stati perfino bocciati insieme. La prima volta è stata colpa sua – fu lui a scagliare l’astuccio nei paraggi della professoressa di matematica, per recuperarlo dovetti saltare gli ultimi due mesi di scuola – la seconda, invece, potrebbe dipendere dalla scoperta da parte mia di una ghiotta fetta di studenti interessati all’acquisto di sostanze stupefacenti direttamente sul luogo di studio, scoperta che, pur fruttandoci un bel gruzzolo senza mai essere scoperti, ci costò una smaccata inimicizia del corpo docente.
Quest’anno, almeno a parole, ci siamo promessi di fare i bravi. È che ormai ci saremmo anche stufati di questo tran tran. In fin dei conti, se devo fare l’impiegato, tanto vale andare a fare il segretario insieme a mia madre e farmi rimborsare per filo e per segno il tempo che mi strappano dalle dita. È la primavera che tenta, illude e in fondo ci chiede il conto. Ci lasciamo abbindolare senza opporre resistenza dal sole languido, dalle carni esposte, dalle chiusure ormai imminenti dei locali, dagli after open air, dai primi nomi che compaiono sui cartelloni dei festival estivi. Ci facciamo promettere che questa volta sarà diverso, che sarà per sempre, che stavolta no, non passerà: le resteremo aggrappati senza farci disarcionare.
E così ci ritroviamo a settembre, un anno ogni due in una nuova classe, circondati da corpicini in via di sviluppo che ormai ci sembrano minuscoli, a sentirci ripetere le stesse cose dai soliti tre insegnanti disgraziati. Forse il problema sta nel fatto che non abbiamo voglia di rinunciare a niente, troviamo talmente insopportabili i discorsi sui sacrifici e sul duro lavoro che ci viene la pelle d’oca soltanto a scherzarci sopra. La nostra esperienza ci ha educato a seguire la scorciatoia, non per pigrizia, ma per convenienza. Non ce la beviamo più la parabola del sudore, abbiamo ben presente i segni sulle facce dei nostri genitori, conosciamo di riflesso la fatica, e per questo ce ne teniamo debitamente alla larga. La fatica toglie lucidità, fiacca, fa perdere concentrazione. Noi vogliamo essere freschi, marciare su una pista da ballo per tutta la notte, rimanere presenti a noi stessi, seppur a modo nostro. È una filosofia che io e Lucio condividiamo sin dall’infanzia senza bisogno di doverla riaggiornare verbalmente. Ci basta uno sguardo, un gol in rovesciata, un culo come Dio comanda, una canna grassa come quella che gli sto passando in questo momento. La afferra con due dita, senza nemmeno degnarla di uno sguardo, e continua a scorrere qualcosa sul suo cellulare.
Sembra sul punto di completare una delicata operazione finanziaria.
«Programmi il week-end?», faccio.
«Macché, ’sto week-end sono in Abruzzo».
«A fare?»
«Mia nonna s’è sentita male, un ictus o che so io…»
«Ancora?»
«Ehhh, che ci vuoi fare? Quella è più morta che viva».
Si gira d’improvviso verso di me: «Però…»
«Però?»
«Tieniti forte: prossima settimana c’è Donato Dozzy al Goa. Quattro ore di dj set».
«Allora vedi di non disfarti in Abruzzo dalla nonna, riposati per venerdì».
Ridiamo. Lucio si rabbuia un poco: «Peccato chiedano venti sacchi e io al momento non c’ho una lira. Devo provare a imbucarmi di straforo, sennò tanti saluti».
«A chi lo dici…»
Restiamo diversi minuti in silenzio fissando le squadre che fanno il loro ritorno in campo dopo l’intervallo.
«Forse riesco a procurarmi degli ingressi», dico.
Lucio ingolla una boccata di birra che quasi gli va di traverso.
«Ah sì? E come?»
«Faccio un tentativo, ho detto, non prometto niente», rispondo mentre gli strappo la bottiglia dalle mani.
«Coraggio, illuminami». Si volta verso di me. Adesso ho tutta la sua attenzione.
«Mah, posso sentire Bellisario. Lui ha conoscenze, magari salta fuori qualcosa…»
Lucio si sganascia dalle risate. «Bellisario? Sarà già tanto se conosce il suo nome. Ascolta, ma non è che quello è un po’…», e con l’indice e il medio si picchietta l’orecchio.
«Ma va!»
Lui insiste: «Che poi il motivo per cui ci passi tanto tempo insieme ancora non l’ho mica capito. Cosa fate, eh? Vi siete fidanzati? Non devi vergognarti, puoi dirmelo».
«Cosa c’è, sei geloso? Me lo vorresti buttare tu? Ti interessano i biglietti sì o no? E allora finiscila di sparare cazzate», taglio corto.
Rivolgiamo nuovamente lo sguardo allo schermo e per il resto della partita non ci diciamo granché, giusto una sequela di «mi passi il…», «hai finito con…», «puoi abbassare il volume» e compagnia bella. Piuttosto che dire «grazie» o restarsene muto quando rimedi una soluzione al posto suo, Lucio sarebbe capace di mangiarti a morsi.
Appena scattano gli highlight e i commenti del dopo-partita lo lascio a rotolarsi nel suo rancore e mi dirigo verso casa. Non è ancora passata la mezzanotte e ho tutte le carte in regola per trascorrere una notte da studente modello.
Di nuovo con Bellisario, aperitivo all’Erg su via Cristoforo Colombo. A chi sollevasse dei dubbi sul trascorrere del tempo al bar di un distributore di benzina, non saprei francamente cosa ribattere. È stato Bellisario a portarmici la prima volta, e io non ho mai avuto niente da ridire. I Gin tonic sono sempre belli carichi e il buffet è compreso nel costo del drink. Questo mi basta. Non mi interessa come sia arrivato qua uno come lui e che cosa vada cercando, l’importante è che alla fine dei nostri bicchieri, quando la porta a vetri automatica si apre e ci restituisce al mondo un po’ più serafici di come eravamo prima, un paio di giri li abbia offerti il mio buon amico. Questo basta e avanza.
Seduti a un tavolino di fronte alla grande finestra che affaccia sulle pompe, tuffiamo la mano dentro un piatto stracolmo di mini-sandwich infilzati da bandierine di paesi caraibici e post-sovietici. Bellisario prende le Barbados cotto e maionese e se le ficca in bocca senza masticare. Gli argomenti che affrontiamo sono sempre leggeri e di poco conto, rilassanti nella loro assenza di pretese. Parliamo per lo più di serate. Rave, after, feste in terrazza. Serate, serate, serate. A pensarci bene è spropositata la quantità di parole che dedichiamo alla descrizione di esperienze quasi uguali a loro stesse e spesso confuse nella memoria come un ricordo della prima infanzia. Eppure è sbalorditiva la nostra capacità di cogliere le sfumature non banali dei sabati che abbiamo calpestato, di confrontare le prestazioni dei dj, la qualità delle sostanze assunte, di mettere in relazione una notte con un’altra trascorsa nello stesso posto, allo scopo di comprendere quale siano i motivi profondi che ci risputano fuori da un club, all’alba, felici o depressi.
Io e Bellisario ci siamo conosciuti così: nella coda «ingressi omaggio/liste» di un locale imprecisato.
Davanti a me si gingillava questo volpino inquieto, con l’occhio vispo e le guance arrossate da due macchie giulive perfettamente circolari, tipo quelle di una Matrioska. Non avrà avuto più di trentaquattro/trentacinque anni, eppure il suo modo di vestire e di tenere legato alla vita il golf lo facevano somigliare a un pappone avanti con gli anni in trasferta a Milano Marittima. Si accese una sigaretta e io gliene scroccai una. La fila non scorreva, così ci mettemmo a chiacchierare di musica. Quando arrivò il suo turno, venne riconosciuto dal buttafuori del locale, che con un gesto amichevole lo invitò a entrare. Subito dopo toccò a me. Il trucco della lista non funziona sempre, ma con una buona dose di faccia tosta e di insistenza regala spesso gioie insperate. Funziona così: si deve conoscere il nome di un Pr, accertarsi possibilmente della sua assenza, infine giurare e spergiurare fino alla morte che tu su quella lista ci sei, in caso contrario deve esserci stato un errore da parte dell’organizzazione e il treno per Cerveteri se l’accolla il club e anche il costo di un ostello e del taxi per arrivare all’ostello a quest’ora della notte. È così banale che il tizio in cassa è propenso a credere alla tua buona fede, o forse è soltanto troppo stanco o vigliacco per tirarla per le lunghe. In anni di collaudo, potrei sostenere senza troppa approssimazione che il trucco della lista funziona all’incirca in sei casi su dieci. L’importante è non ripeterlo più di una volta per locale e insistere solo finché i buttafuori non cominciano a strabuzzare gli occhi. Quella sera il trucco non funzionò e se Bellisario non fosse intervenuto, in quel locale non ci avrei messo piede nemmeno per fare le pulizie. Lo ringraziai e ci separammo quasi subito. Soltanto alla fine, quando il sole era ormai alto e la mia carcassa semi-svenuta si trascinava verso la fermata più vicina della metro A, lo ritrovai immerso nella valutazione dell’entità di un minuscolo graffio sul parafango della sua Audi. Mi fermai per salutarlo un’ultima volta, ma quando mi voltai lui mi urlò dietro: «Ma come? Non vieni all’after?» Con un gesto della testa mi fece posto sul sedile del passeggero.
«Senti Enzì, venerdì prossimo ci sta Donato Dozzy al Goa, che pensavi di fare?»
«Sì, ho visto. Andiamo».
«Ah, grandioso. Non è che avresti modo di far entrare me e un altro amico?»
«Ovvio, lo dico a Pinuccio. Ti faccio lasciare in cassa cinque omaggi».
Stacca la bandiera del Brasile a un tramezzino e la esamina. Cerca di apparire spontaneo, la naturalezza fatta Pr, ma io so che dentro di sé sta gongolando.
«Wow, grazie, fantastico. Ti devo un favore».
Bellisario scaccia il debito con un gesto vago della mano.
«Ah, piantala. Dopotutto sei o non sei il mio protégé?»
«Prote-chè?», domando sporgendomi sul tavolo.
«Protégé», ripete.
«Ah».
Faccio per prendere un tramezzino, poi ci ripenso e lo metto a posto.
«Senti, ma non è una roba da froci vero?»
«Ma no scemo, è francese!»
«Appunto».
Scoppia a ridere, leggendomi in faccia la preoccupazione per questa storia che non ho ben inquadrato, e subito dopo mi metto a ridere anch’io. Scoliamo un altro paio di Gin tonic, saliamo in macchina, siamo carichi a mille. Per rilassarci cominciamo a girare a vuoto. Avanti per il Gra, a respirare gli scarichi dei camion, Tor De’ Cenci e i suoi alberi giurassici, la via Pontina, con gli zingari appostati ai bordi della strada come vedette folli, i sorci nel fosso Valleranno. Bellisario guida all’impazzata, s’incattivisce sull’acceleratore. Con gran fatica stendo un paio di righe su un cd dei Simply Red che Bellisario giura essere di sua madre. Facciamo tappa in un bar di viale America per dare una ripulita a Simply e mandare giù un digestivo. Il bar è stretto e lungo, ha l’aria di essere un dehors coperto abusivamente da una calotta di ferro e vetro. È popolato da anziani e da brutte facce che non vedono l’ora di incontrare l’occhiata sbagliata. Vado a pisciare e quando esco dal cesso mi si para di fronte un vecchio pazzo con i capelli arruffati e un bastone traballante che lo sorregge a malapena. Mi guarda negli occhi: «Mussolini… resuscita!», grida. Gli passo accanto e torno alla macchina.
Eur, Palazzo dei Congressi. Sulla terrazza dello Spazio Novecento Bellisario mi consegna un pacchetto di chicche che ho una gran fretta di piazzare. Sono di ottimo umore e non vedo l’ora di ballare. Mi aggiro recitando nelle orecchie dei presenti il tipico mantra – emmeddì emmeddì emmeddì emmeddì – finché non rilevo una qualche reazione favorevole. Sono un ambulante che gira le spiagge con i secchi di cocco incastrati sotto le ascelle. La serata è incandescente e la gente ha premura di sconvolgersi. Vendo tutto con rapidità, dal guadagno prelevo il solito 20% e arrotolo le restanti banconote nell’altra tasca. Prendo un Gin lemon al bar, con il cocktail in mano mi faccio strada nella calca. Comincio ad assecondare i battiti della cassa, immagino Bellisario seduto come al solito su un divanetto, a scambiare ovvietà con un ex compagno di Luiss o con un promoter fradicio di sudore.
Chiudo gli occhi, non saprei dire se per un attimo o per qualche minuto, li riapro di scatto quando mi sento scuotere la spalla. Di fronte a me, un ragazzo col sopracciglio mezzo rasato, il piercing al labbro e una maglietta verde militare mi sta chiedendo qualcosa che non capisco. Lo conosco. Si tratta di Pietro Crisante, un mio coetaneo pluri-ripetente che frequenta ancora il terzo anno nella mia scuola. È il genere di persona che vorresti sempre come amica, perché in caso contrario sarebbe capacissimo di riempirti di botte per niente. Lucio ogni tanto ci esce per via di conoscenze in comune, io non ci ho mai avuto a che fare. Spesso lo vedo aggirarsi per i corridoi in tuta da ginnastica, alla ricerca di soldi o sigarette che tutti quanti sembrano molto di felici di donargli. Altre volte passa intere lezioni chiuso in bagno a spacciare un nero catarroso e ignorante che ti raschia la gola che manco la cartavetro.
Mi ripete la domanda, la musica è troppo alta per capire. Intuisco che mi sta vendendo qualcosa e che non ha riconosciuto la mia faccia. Con la testa faccio di sì, sì a qualsiasi cosa mi abbia appena proposto. Estrae la roba da sotto il polsino da tennista, con l’altra mano mi fa un due e un dieci. Fanno venti. Srotolo dal fascio una banconota azzurra da venti euro e mi ritrovo catapultato fuori dal suo cono d’attenzione. Ficco in bocca senza complimenti e riprendo a ballare. L’ultima cosa che ricordo è Bellisario che mi pizzica il braccio e dice: «Venerdì prossimo ti presento le Victoria’s Secret».
In bagno, al cambio dell’ora, giro le ultime scorte d’erba per affrontare la lezione di Latino.
Crisante apre la porta con un calcio, facendomi sobbalzare. Spalanca le braccia e guarda in alto, grida: «Ho del potenziale! La Bruni dice che ho del potenziale!»
Le mani gli ricadono lungo i fianchi, la breve performance sembra averlo sfiancato. Sospira e dice: «E ora datemi da fumare».
Si guarda attorno. Due tizi scuotono la testa impauriti, mostrano la sigaretta che stanno dividendo, un ragazzino esce dal cesso a occhi bassi e infila il corridoio di gran carriera. Resto solo io. Gli faccio cenno di avvicinarsi.
«Sono stufo di quella suora. Non vede l’ora di farmi la paternale ogni volta che mi incontra. “Stai buttando la tua vita, sei un ragazzo intelligente, se le energie che impieghi per far danni le utilizzassi per studiare adesso potresti essere all’università…” e allora mi spieghi perché mi sbatti sempre fuori, brutta troia?»
«La Bruni è una troia», confermo.
Ci passiamo la canna.
«Però! – mi fa – Buona. Dove la prendi?»
«Sulla Prenestina. Ci sta un tizio ai domiciliari, si annoia e allora coltiva un po’».
«E non ha paura delle guardie?»
Improvviso: «Evidentemente ha il culo parato».
Fisso le piastrelle del bagno nella speranza che abbia esaurito le domande a riguardo. Lui si presenta. Gli dico che già lo conosco, gli faccio il nome di Lucio e gli ricordo la serata allo Spazio Novecento, lui sostiene di non averne proprio memoria, né di Lucio né di me alla serata allo Spazio Novecento.
«Ti è piaciuta?», chiede lui.
«Sì».
«A me è sembrata una merda. Che senso ha far finire tutto alle quattro?»
«Sì, è vero. In effetti non è stata granché».
Viene fuori di venerdì al Goa. Vorrebbe venire. Gli dico che se vuole ho un biglietto in più, forse anche due. Crisante accetta, pare molto soddisfatto della proposta. Ci scambiamo i numeri di telefono e ci accordiamo per risentirci nei prossimi giorni. Esce dal bagno trotterellando, con i suoi pantaloni della tuta grigiastri calati a mezzo culo. Prima di rientrare in classe resto ancora un attimo in bagno. Mi auguro davvero che quei cinque biglietti promessi da Bellisario esistano veramente, il trucco della lista potrebbe non attaccare con uno come Crisante…
Il tipo alla cassa abbozza una strana espressione, ma forse è soltanto disgustato dall’umanità rappresentata da persone come me, Lucio, Crisante, Carletto, il loro amico in comune, e Nervo, l’altro ceffo che si sono portati appresso. Guardi pure quanto crede, il mio nome è in lista con un bel +4 a fianco. Siamo dentro, dondoliamo la testa al crescere dei bpm. Dozzy scalcia sulla testa, infierisce sulla vulnerabilità di noi poveri drogati. Mi giro verso il bar per valutare l’entità della coda. Nei pressi del bancone scorgo Bellisario. Mi sta a sua volta osservando, probabilmente mi ha già notato da un pezzo. Alzo la mano in segno di saluto, lui fa altrettanto. Sembra aspettarsi che lo raggiunga ma Lucio mi afferra per un braccio e grida qualcosa, mi passa una delle bottigliette che abbiamo preparato a casa sua e mi trascina sotto cassa. Crisante e Carletto sono già persi nello spaccio di Md e Ghb, Nervo si muove legnoso a pochi metri da noi, nel tentativo di appoggiarlo a una ragazza che sembra non accorgersi affatto della sua presenza. Chiudo gli occhi, ballo. Scompaio gradualmente, mi sciolgo nella musica, sono una pastiglia effervescente contro i sintomi influenzali. È come se nessuno intorno a me riuscisse a vedermi. Sprofondo nella soffice consapevolezza che anche oggi tutto ciò che dirò e farò mi sarà irrimediabilmente perdonato.
Finalmente mi avvicino al bar. Lo trovo ancora lì, Bellisario, un gomito piantato sul bancone e un sorriso tirato sulle labbra. Ci salutiamo. «Allora?», chiede, «Allora?», rispondo.
S’interrompe per permettermi di ordinare da bere. Il cassiere batte lo scontrino ma quando provo a raggiungere il portafogli Bellisario allunga una banconota. «Faccio io».
«Be’, non mi presenti i tuoi amici?»
«E tu non dovevi presentarmi le tue amiche?»
Si guarda le scarpe: «Eh, ma è ancora è presto…»
La sua remissività mi urta, è benzina per la mia insofferenza.
«Vabbe’ vabbe’, se le vedi salutamele».
Faccio per tornare dagli altri ma lui mi blocca. È un gesto goffo, eseguito senza convinzione né familiarità. Mi guardo intorno, il pensiero che possano averci visto mi manda in bestia.
«Ma che hai? Ti ho fatto qualcosa? Non siamo più amici?»
Con una manata gli allontano il braccio.
«Amici? Ma chi ti conosce! Hai trent’anni suonati, Enzo. Trovati qualcuno della tua età per farti pascolare. Ah già, dimenticavo: quelli della tua età non se l’accollano uno come te».
Bellisario è pallido come uno straccio, boccheggia. Penso di averlo visto così soltanto un’altra volta, la sera in cui il bancomat di piazza San Pantaleo gli aveva mangiato la carta.
«Credevo fossimo amici…», ripete lui rivolto alla parete, una spalla puntellata contro il muro per reggere il resto del corpo. È un gigantesco bambino alla deriva.
«Io te l’avevo detto: niente robe da froci. Non sono il tuo fidanzato».
Raggiungo la pista prima che possa aggiungere altro, ma quando riprendo a ballare è come se avessi perso l’invisibilità. D’un tratto avverto una gran pesantezza, gli arti si muovono molli e scoordinati, sono al centro di sguardi e di battute, almeno credo. «Ti senti bene?», chiede Lucio.
Eccomi lì, mentre batto strada tra la gente, sudato come gli sputi, risalgo a fatica la corrente di pubblico pagante, la massa accreditata, le file che si abbeverano al bar, gli ingorghi di vesciche accrocchiate nei pressi dei bagni. Se questa è la vita che voglio, penso prima di stramazzare di fronte a un buttafuori impizzato, ho appena mandato al diavolo il mio pass per il privé. Ma è solo il pensiero di un attimo, l’attimo prima di quando tutto attorno a me si smorza e io cado a terra di faccia.
Quanti anni saranno passati? Due, tre? Se pensate che abbia trascorso tutto questo tempo a rodermi per il senso di colpa vi sbagliate di grosso. Ho proseguito per la mia strada. La maturità, per prima cosa. Un non disprezzabile 72/100 che finalmente mi è valso un foglio di via dalla scuola dell’obbligo. Non contento, sono addirittura giunto alla conclusione che l’università potesse essere la soluzione ottimale per proseguire nella mia opera di scivolamento coatto. Ecco dunque una borsa di studio nuova di pacca e un corso di laurea – il Dams – che mi garantiva il giusto equilibrio tra esami e vagabondaggi notturni. Così non è stato.
Dopo sei mesi, mi sono ritrovato con il libretto ancora in bianco e con la consapevolezza che la vita universitaria non faceva al caso mio, o meglio, forse lo faceva troppo.
Ho scoperto anche che i professori universitari sono soltanto un po’ più nostalgici e un po’ meno attenti all’igiene personale rispetto a quelli delle superiori.
Custodiscono l’accademica virtù di sbattersene di chi sei e delle figuracce che farai una volta seduto di fronte a loro. Per esempio, non se la prendono a male se invece di studiare per l’esame hai trascorso tutta la notte a bilanciare raglie di coca e di ketamina a una festa tekno dalle parti di Ciampino. Puoi ripetere la scenetta quante volte vuoi, loro continueranno ad annuire senza trasporto al tuo balbettio e a liquidarti con un: «Forse è meglio se si ripresenta la prossima volta». Così non poteva durare, e infatti non è durata.
Una volta smascherato il bluff, mia madre ha detto: «Forse è meglio se ti trovi un impiego», esattamente con lo stesso tono rassegnato con il quale venivo congedato dal docente in sede di esame. Mio padre ha fissato la tovaglia. Era d’accordo, ma evidentemente non era in vena di impartire lezioni di vita dall’alto del suo contratto a provvigione.
Grazie a un amico di Lucio sono stato assunto come cameriere in un ristorante del Pigneto, uno di quei posticini per coppiette che tengono più alle ore di lievitazione di una pizza piuttosto che alle ore che ti dovrebbero pagare. In ogni caso, uno stipendio lo ricevo, e quando sono fuori nessuno si sente più in diritto di dirmi cosa dovrei fare con il mio tempo. La mia vita non è poi cambiata molto, se non per quella lieve fitta d’angoscia che mi percorre tutte le volte che regolo la sveglia prima di andare a dormire. Di Bellisario non ho più saputo niente, non una telefonata, un sms, mi ha persino bloccato su Facebook. L’ultima novità che mi è giunta da Lucio è che suo padre – il noto immobiliarista Antonio Eraldo Bellisario – si è candidato l’anno scorso a sindaco di Latina con le liste del Pd, ma ha perso al ballottaggio.
Eppure sono convinto che un giorno ci rincontreremo. Mentre io starò riprovando con stanchezza l’ennesimo numero della lista, lui passerà avanti, seguito da un manipolo di studenti universitari. Il tempo di una pacca sulla spalla, di un come stai, cosa combini, ti vedo bene, due chiacchiere sulla musica, sul più e sul meno, un augurio di rivedersi presto per un bicchiere che cadrà tacitamente nell’oblio. Quanto basta per domandarsi che diavolo avevamo a che spartire, noi due, e proseguire con le nostre vite. Oppure faremo finta di non esserci mai conosciuti, asseconderemo il corso naturale delle cose con reciproco sollievo. Perché a questo mondo nessuno protegge nessuno. Si tratta di passare un’altra serata in compagnia, di ballare ancora per un po’, fino a che le luci non si riaccendono e il dj fa partire l’ultimo svuotapista. Chi lo capisce è bravo.
Martin Hofer, nato nel novembre 1986 a Firenze, vive da qualche anno a Torino. È stato finalista a “Esor-dire 2012”, ha partecipato a due edizioni di “8×8, un concorso dove si sente la voce” e ha pubblicato alcuni racconti su Colla, Cadillac Magazine e Verde Rivista. Ha scritto una guida – Torino (quasi) gratis – per Laurana Editore. Al momento lavora come ufficio stampa per una casa editrice di Milano. Insieme a Bernardo Anichini ha fondato e dirige L’Inquieto, rivista quadrimestrale di racconti illustrati.
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