Il racconto di una vita
A proposito di “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo
di Alessandra Bartucca / 18 gennaio 2018
«La vita non è né brutta né bella, ma è originale!» Una chiave di lettura insolita del nostro percorso terreno quella del protagonista di La coscienza di Zeno, dietro la quale si cela un modo di stare al mondo che è la bellezza moderna e la crisi dell’uomo che è in essa, combattuto tra coscienza e fuga dalla complessità che ne deriva nello stare al mondo e che scioglie il dubbio del giudizio nella svolta di un punto di vista che salva tutto e tutti in un’idea che oltrepassa le griglie mentali, l’originalità appunto.
Cosa sia bene e cosa sia male è certamente riduttivo di fronte alla coscienza che, complice Freud e il principio della psicoanalisi, si afferma storicamente, in una dilatazione che è segno di rivoluzione, nei primi del ’900, in quell’arco temporale in cui il romanzo è ambientato, poco prima dello scoppio del primo conflitto mondiale, e in quello in cui l’autore materialmente lo scrive, tra il 1919 e il 1922.
L’incapienza del bene e del male di fronte alla rivoluzione psicoanalitica che amplia il terreno di manifestazione dell’individuo fino a ricomprendere l’inconscio che parla di sé o del Sé, oltre la struttura più o meno portante dell’Io, non è tale da indurci ad assolvere Zeno Cosini dalle continue giustificazioni che lui fornisce alle sue azioni, ma è certamente la chiave di accesso ironica al suo pensiero in molti dei passaggi cruciali del romanzo.
Nella prefazione è racchiuso il senso della sua pubblicazione o, meglio, di quella del suo diario in cui si traduce il romanzo medesimo: una ripicca del suo analista alla decisione del nostro Zeno di abbandonare il percorso con lui intrapreso.
Il resto, a parte il finale, che è un tentativo di ripresa e, poi, conclusione di quella via, è il racconto di una vita, è la storia di chi si impone all’attenzione del lettore per l’incapacità cosciente di essere – e, dunque, per la volontà di non essere – parte attiva degli eventi che lo coinvolgono, è il desiderio frustrato e il piacere di rincorrere ciò che manca, è l’adulazione, la manipolazione dell’altro in funzione del bisogno di compiacimento e di identità che nasce dall’accoglimento, seppure fallace, perché fondato su una bugia, da parte dell’altro che ci giudica e rende parte di sé allontanandoci dalla solitudine e dalla paura che l’uomo moderno vive più drammaticamente che in passato, in una fragilità che è anche dei giorni nostri.
Il preambolo è l’incipit del diario, laddove viene tracciato il senso stesso della vita, un’origine ingenua e pulita destinata a sporcarsi e perire nell’esito inevitabile dell’esistenza concepita come una malattia mortale, laddove nel finale l’autore profetizza, e quasi si augura, un’esplosione enorme che, nel generare una catastrofe dalle dimensioni sproporzionate, si fa unica possibile catarsi del mondo moderno.
Oltre il preambolo, i capitoli che suggellano gli eventi fondamentali di un’esistenza, in ciascuno dei quali tornano l’incapacità di scegliere, l’accomodamento al pensiero e giudizio altrui, la distorsione del reale in funzione di un sogno che deve animare il percorso terreno per non incorrere nell’unica verità che è celata dietro i capitoli e i loro eventi, che la vita ha un suo senso oltre l’azione che segue lo stato di coscienza, nello sbrogliarsi di una matassa che coinvolge l’umanità intera e che, senza la sincerità degli affetti, diviene puro esercizio mentale, ma anche nell’evidenza dei vuoti con cui facciamo i conti, a patto di scegliere di non raccontarcela come fa Zeno Cosini.
La vicenda del fumo e dell’ultima sigaretta è certamente la più nota, in quello spazio in cui il protagonista racconta dei vani tentativi di uscire da una dipendenza che si fa cronica fino ad accompagnarlo per tutta l’esistenza, in una negazione del piacere che si fa piacere proprio perché negato, proibito, sancito come male dall’autorità, che sia paterna o medica poco importa se non per la complicità, nel primo caso, di una madre che, concedendo il sorriso di condivisione, al furto di sigari compiuto dal figlio a danno del marito, al piccolo Zeno, lo rende parte di sé in una dimensione che lo vedrà cercare nelle donne quel sorriso e la prosecuzione confortante del materno perduto irrimediabilmente con la fine del candore dell’infanzia.
A ben guardare, la vicenda del fumo introduce due passaggi fondamentali della storia del protagonista: non solo la paura della malattia che si spegne solo a fine romanzo con la traduzione della paura nella realtà che si produce sul fisico, diventando malattia fisica, con il merito di avere un suo percorso incontrollabile dalla mente e da quel flusso ininterrotto dei pensieri che è il suo diario.
Attenzione, però: non paura che impedisce l’azione che realizza il rischio che la paura diventi realtà, ma paura che amplifica il piacere in quel rischio e nella produzione di un meccanismo che è schiavitù in apparenza, ma è scelta in verità, scelta di stare nel limbo fino al prossimo segnale.
E il limbo è anche il codice in cui narrare il rapporto con le donne, l’altro passaggio, già nell’episodio del fumo, in cui a esse si accenna, come parti, in un’incompletezza affermata da Zeno che è giustificazione del suo ricercare oltre, oltre la donna amata sin dal primo incontro, Ada, bella in una fisicità che è nei riccioli e nello sguardo, nella severità e nella fuga, oltre quella sposata, Augusta, sorella di Ada, madre dei figli che Zeno avrà con lei e donna dai modi materni e accoglienti in quella prosecuzione di cui abbiamo già detto, oltre Alberta, l’altra sorella, con cui condividere una complicità intellettuale che è un altro approccio possibile al femminile, oltre Carla, la ragazza che incontrerà per merito di un amico in fin di vita e rispetto a cui sarà fraterno amico, poi figura paterna e, infine, amante combattuto tra il rimorso verso la moglie e le giustificazioni, fondate su necessità e bisogni, suoi e di lei, per la sua malefatta, quasi un’irrimediabile conclusione.
E l’Io cede alle fughe, ai bisogni, a tutte le storie che costruiscono una realtà parallela in cui raccontarsi la possibile via di arricchimento con la costituzione di un’associazione commerciale con il cognato, il marito di Ada, destinata a fallire, non solo per un’incompetenza che diventa posizione vacillante di fronte al sogno di soldi che induce in tentazione in strade incerte, ma anche per inesperienza, assenza di calcolo, perché cosa conta il calcolo se la vita vera è quella raccontata?
Cosa conta l’odio verso il cognato se la farsa è quella che lo vede amico e custode dei suoi segreti, incluso quello che gli consentirà di capire che il suo suicidio non era voluto?
Cosa contano il bisogno di essere, pur nell’assenza di un’identità cui segua il taglio delle posizioni in cui si articola l’Io nelle scelte quotidiane, se il limbo produce benessere, seppure raccontato, accettazione, posto sicuro nel mondo dei presunti affetti che ci costruiamo?
Questo libro lo lessi negli anni del liceo e ne sorrisi molto. Oggi, ne colgo i tratti disperati, camuffati da un’ironica e, per certi versi, salvifica intelligenza celata nell’uso illuminante di un lessico equilibrato e ricco, che copre la tempesta emotiva persino nella tragedia della morte del padre, che nello schiaffo rivolto al figlio che precede la fine lo suggella inetto, incapace di vivere nella normalità, in una diversità di adattamento alla vita che si fa alterigia e superbia e che non cede neanche alla fine alla rassegnazione dell’inutilità di tutto.
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