Un viaggio di dolore nella terra delle promesse mancate
Su Tre manifesti a Ebbing, Missouri
di Alberto Sorge / 19 gennaio 2018
Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film drammatico (suddiviso in tre atti) che strizza l’occhio, soprattuto nella seconda parte, alla commedia nera, dove i momenti tragicomici sembrano dare respiro, per quanto possibile, a un’atmosfera pregna di angoscia e contraddizioni.
Mildred Hayes (Frances McDormand) è una madre che non riesce a trovare pace. Come potrebbe, d’altronde? Solo sette mesi prima, sua figlia Angela è stata violentata e uccisa e le indagini, fino a questo momento, non hanno portato a niente. Accecata da una rabbia che il tempo non è riuscito in alcun modo a diluire, eppure lucidamente convinta delle proprie ragioni, Mildred decide, una volta raccolti i fondi necessari, di commissionare tre manifesti da affiggere su una strada poco trafficata, a poche miglia dal paese. Tre manifesti che ricalcano delle frasi accusatorie (per la controparte: ‘diffamatorie’) nei confronti delle forze dell’ordine, e nello specifico dello sceriffo Bill Willoughby (Woody Harrelsson), reo, secondo Mildred, di non aver fatto abbastanza per trovare il colpevole.
È da questo spunto, da questi tre manifesti, da questa equivoca sovrapposizione tra vendetta e senso di giustizia, che si snoda una storia che fa capo al passato ma che si allunga, come un’ombra, nel presente.
In un’America provinciale, brutta, sporca, razzista e cattiva (facile il richiamo alle pellicole di Clint Eastwood), si snodano le vicende dei protagonisti, gente comune, disperata e spaesata che potrebbe tranquillamente passeggiare tra le pagine di un racconto di Raymond Carver.
Mildred e la sua furia cieca. Lo sceriffo Willoughby e la malattia che lo sta consumando. L’agente Dixon (uno strepitoso Sam Rockwell, ignorante, violento e xenofobo) e la sua inadeguatezza esistenziale. Sembra che il regista Martin McDonagh abbia voluto fossilizzare, nella sua opera, l’esatto istante in cui ognuno di loro dovrà necessariamente fare i conti con i propri demoni. Sottrarsi al destino, adesso, è impossibile.
Ed è proprio la fatalità un altro tema centrale di Tre manifesti a Ebbing, Missouri: ciò che è successo, ciò che succede, e ciò che succederà, ha il retrogusto dell’inevitabile. In questo senso è curioso il fatto che l’unico personaggio che si fa artefice del proprio destino sia lo sceriffo Willoughby che, anticipando l’ineluttabilità della sorte che gli è stata assegnata, decide di togliersi la vita, non prima, però, di aver scritto tre lettere: una destinata alla moglie (probabilmente il momento più emozionalmente ‘alto’ del film), una destinata a Mildred (nella quale spiega che lui è il primo a dispiacersi del fatto che non sia riuscito nel compito che gli è stato assegnato), e una destinata a Dixon, per il quale spende parole di miele nonostante sottolinei il fatto di quanto sia necessario per il suo sottoposto cambiare atteggiamento, per ritrovare la pace con se stesso.
La morte di Wiloughby, tuttavia, non ha la funzione, filmicamente parlando, di spartiacque. Mildred non arretra di un passo e sembra diventare, anzi, ancora più ingovernabile; Dixon reagisce alla notizia della morte dello sceriffo (probabilmente l’unica persona al mondo per cui prova stima, se non addirittura affetto) picchiando selvaggiamente un ragazzo innocente e venendo sollevato dall’incarico e le indagini, nonostante gli sforzi profusi, non subiscono nessuna svolta decisiva. Tutto rimane immutato, a testimonianza del fatto che la volontà umana non può nulla contro qualcosa di enormemente più grande di lei.
Dopo In Bruges (2008) e 7 psicopatici (2012), il regista e drammaturgo irlandese Martin McDonagh sembra aver fatto un deciso passo in avanti per raggiungere quell’asciuttezza stilistica e quella ricerca di veridicità solo accennata nelle pellicole precedenti. Tre manifesti a Ebbing, Missouri è innanzitutto un film di scrittura (premio per la miglior sceneggiatura originale alla Mostra del Cinema di Venezia e Golden Globe, fino a questo momento): una scrittura carica, rintracciabile ma mai ridondante; una scrittura che vive sul filo, così come vivono sul filo, in precario equilibrio, i personaggi del film, combattuti tra la voglia di dare un senso alla proprie esistenza e l’incapacità di dare seguito a tale gravoso incarico.
Lo sguardo di McDonagh non condanna, né giudica, ma si limita a osservare. Una regia ‘pulita’, a tratti invisibile, quasi documentaristica, tesa ad accrescere il realismo di ogni sequenza e capace di sbatterci in faccia una quotidianità grigia e incolore, dove violenze e sopraffazioni sono all’ordine del giorno.
(Tre manifesti a Ebbing, Missouri, di Martin McDonagh, 2017, thriller, 115’)
LA CRITICA
Un film scritto, parlato, urlato e sussurrato in un’America sbagliata in cui il concetto di vendetta e giustizia si mescolano pericolosamente.
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