L’isolamento del romantico americano: breve storia di un’eredità nascosta

di / 21 marzo 2018

Che cosa hanno in comune Jack London, F. Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, John Steinbeck, Ray Bradbury e Jack Kerouac? Sono scrittori americani e questo non sarebbe sufficiente a giustificare una serie di articoli su di loro. Aggiungiamo allora un altro dato: sono tutti autori che hanno guardato alla scrittura come a una professione, in questo senso: da Jack London in poi il mercato editoriale statunitense diventa a tutti gli effetti regolamentato, vale a dire che a uno scrittore non veniva più chiesto soltanto di scrivere bene, ma di farsi prima conoscere attraverso delle (determinate) riviste. Il racconto breve diventa così un vero e proprio pacchetto preconfezionato: si doveva tenere conto del gusto del pubblico, del numero di parole, di ciò che si poteva e non si poteva dire, della linea editoriale.

Basterebbe inoltre vedere il film Genius (2016) di Michael Grandage, per rendersi conto dell’importanza di una nuova figura editoriale: l’editor, che si occupa di preparare l’opera per la grande distribuzione. Eppure tutto ciò non limitava la capacità di invenzione: gli scrittori citati all’inizio infatti sono riusciti comunque ad affermarsi all’interno di (e grazie a) questo nuovo sistema. Ma non furono gli unici. Ecco perché è necessario aggiungere un terzo dato: la storia della letteratura americana viaggia a partire dalla fine dell’Ottocento su due parallele, una romantica e una realista. Talvolta le due correnti si influenzano reciprocamente, altre volte danno origine a strade ulteriori all’interno della stessa corrente.

Se vogliamo parlare della ricezione della critica italiana rispetto alla letteratura americana dobbiamo per forza di cose cominciare dalla grande antologia Americana pubblicata da Elio Vittorini nel 1941 e successivamente, in una edizione integrale, nel 1968. Quando viene stampata per la prima volta il regime sceglie di censurare tutte le note critiche con cui il curatore non solo accompagnava i testi proposti, ma indirizzava verso una propria teoria della letteratura americana. Nel 1941 quindi mentre sugli scaffali veniva presentata al pubblico una edizione censurata, tra gli intellettuali circolava invece l’edizione originale. In breve Vittorini proponeva quella che potremmo definire come «una terza via» tra romanticismo e realismo: la poesia nel romanzo – o nel racconto breve: «L’America, in questa leggenda, è una specie di nuovo Oriente favoloso, e l’uomo vi appare di volta in volta sotto il segno di una squisita particolarità, filippino o cinese o slavo o curdo, per essere sostanzialmente sempre lo stesso: “io” lirico, protagonista della creazione. Quello che nella vecchia leggenda era il figlio dell’Ovest, e veniva indicato come simbolo di uomo nuovo, è ora il figlio della terra.

E l’America non è più America, non più mondo nuovo: è tutta la terra. Ma le particolarità vi giungono da ogni parte, e vi si incontrano: aromi della terra; la vita vi si afferma con gesti più semplici, e senza mai sottintesi politici, intrepidamente accettata anche nella disperazione e nella morte, (da Americana, ed. integrale a cura di Elio Vittorini, Milano, Bompiani», 1968, cit., p. 963).

Una serie di fattori permettevano a chi scrivesse in America di parlare non a nome di una nazione, ma a nome di tutto il mondo: la letteratura statunitense diventava così una letteratura universale per definizione, e in questo senso poetica. La critica italiana da allora ha formulato altre teorie, a partire dalla coppia Pavese-Pivano che ha fortemente ampliato le annotazioni di Vittorini. Tuttavia, l’influenza dell’Americana come la prima linea guida di una critica italiana improntata alla narrativa statunitense è innegabile anche negli studi più recenti – fosse solo come una controparte da cui attingere per formulare una nuova teoria.

L’obiettivo della serie di articoli che seguiranno questa lunga premessa è allora quello di ricominciare: o meglio di tracciare una breve storia critica della sola corrente romantica, a partire però da quegli autori che si sono trovati a pubblicare in un momento in cui questa corrente sembrava destinata a morire.

 

 

Antonio Merola è laureato in Lettere moderne alla Sapienza Università di Roma con una tesi sulla recezione della critica italiana dell’opera di Fitzgerald. Collabora o ha collaborato con Altri Animali, Lavoro Culturale, Carmilla e Culturificio. È cofondatore di YAWP: giornale di letterature e filosofie, per il quale ha curato la raccolta poetica L’urlo barbarico (Le Mezzelane, 2017). Si occupa dei Quaderni Barbarici su Patria Letteratura.
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