Non commettere atti impuri
"Dilettanti" di Gilberto Severini
di Cecilia Monina / 2 aprile 2018
Ѐ la confessione più intima di una «provincia votata alla prudente mediocrità», quella di Dilettanti di Gilberto Severini (Fandango-Playground, 2018). Ѐ una lettera aperta che ha principio nei teatrini parrocchiali dismessi, luoghi di iniziazione alle voglie giovanili, di goffi tentativi e promiscuità, lì dove il più scaltro — Vincenzo, detto Incenso, nipote del pizzicagnolo — traghettava l’innocenza dei meno esperti, tra le poltrone di velluto che avevano fatto la muffa. Ѐ un “tu” che ha più di un interlocutore: tutti coloro che furono ragazzini e poi uomini della provincia marchigiana, la più devota e soffocante. Il racconto entra nelle vite degli altri, svelandone repressioni e contatti, scavando ben più a fondo degli anni condivisi, oltre le serate alcoliche smaltite in automobile. C’è Sergio, il biondino, che aveva riposto l’amore nell’amico Giancarlo e provato il primo, cocente dolore, attraverso il filo del telefono mentre Giancarlo, dalla villeggiatura, gli confessava l’innamoramento per una coetanea: «Ai tempi era un passaggio obbligato: il giovane omosessuale innamorato dell’amico eterosessuale».
E sempre Sergio, uomo adulto che vive l’equilibrio del posto fisso e solo sporadici guizzi di socialità. Sergio, incontrato per caso una mattina di fine agosto in un Autogrill insolitamente vuoto; è arrivato a sfiorare l’età del pensionamento e si è lasciato andare al brivido delle chat e ha finalmente riscoperto il gioco dell’ignoto, quella libertà sessuale che si era a lungo dovuto negare e poco importa, adesso, chi ci sia davvero dall’altra parte: come è eccitante potersi fingere chiunque.
Ma c’è anche Giulio — «altro tu dei miei soliloqui» — che era stato un giovane borghese e aveva finito per prendere moglie, addirittura, e aveva insabbiato così anche le dicerie, le leggende popolari che parlavano di una certa notte in campagna e di colpi di pistola. Giulio, rivisto dopo anni di lontananza dalla provincia, (ora col viso scavato e ceruleo ma con la sua inconfondibile voce), e subito tornato a essere il confidente di un tempo, il mittente di telefonate notturne intervallate soltanto da qualche breve pausa. Anche lui destinato a essere solo figura di passaggio nella vita dell’io che presta la voce ai Dilettanti, anche Giulio poi ricostruito attraverso i segni tangibili del suo passaggio sulla terra, raccolti con zelo in una busta, poco prima di spegnersi, come fossero una piccola eredità materiale fatta di numeri telefonici e un pacchetto di Marlboro già cominciato.
Con questo romanzo, Gilberto Severini traccia il firmamento di voci e uomini solitari che come comparse hanno fatto parte della vita del narratore, prima di eclissarsi e rimanere nelle storie di paese, nei pettegolezzi, passando per le poche «segnalazioni di conoscenti comuni» e infine facendosi assenza. Severini allora riunisce questi «attori in spettacoli diversi» per l’ultima volta, li chiama per nome — uno a uno — e colma il buco delle loro vite negli anni di vuoto e mancanza, quelli senza più avvistamenti o notizie. Si rivolge a tutti, con un “tu” confidenziale e interiore, pur sempre restando dietro le quinte, come un regista che timidamente asseconda gli attori e li lascia improvvisare, senza più la costrizione di assegnare le parti. E da dietro il sipario pure li osserva, all’esatta maniera di uno spettatore, e ne aspetta l’inchino, il congedo finale, gli applausi.
(Gilberto Severini, Dilettanti, Fandango-Playground, 2018, pp 129, € 14.00)
LA CRITICA
Gilberto Severini torna, dopo Backstage, con un romanzo che è anche una lettera aperta, ironica e dolorosa. Il racconto di esistenze solitarie – di uomini costretti a negare la propria omosessualità per il solo desiderio di “sentirsi normali” – che trova luogo nell’intensità del ricordo.
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