Una tempesta che non lascia tracce
Un’ottima idea che si perde in fretta
di Francesco Vannutelli / 13 aprile 2018
Dopo l’imbarazzante (sul piano artistico) parentesi sul papa di Chiamatemi Francesco, Luchetti torna a parlare dell’Italia contemporanea con uno sguardo rivolto, più che mai alla gloriosa e ingombrante tradizione della commedia all’italiana. Io sono Tempesta riprende, in una forma annacquata, il cinismo amaro di Monicelli, Risi e Scola per raccontare il Paese in una delle sue tante facce.
Numa Tempesta è un imprenditore immobiliare specializzato nella compravendita di grandi complessi alberghieri. È ricchissimo, e solo, senza famiglia, senza una fissa dimora, con le valigie sempre pronte per spostarsi da uno all’altro dei suoi alberghi in attesa di vendita. Per un vecchio processo per evasione fiscale viene condannato a un anno di servizi sociali in un centro di accoglienza per indigenti. Bloccato in Italia mentre i suoi affari lo vorrebbero altrove, Tempesta si confronta con un gruppo di poveri sospesi tra etica e denaro. Potrebbe essere l’occasione per fare i conti con sé stesso e imparare a conoscere gli altri. Potrebbe.
L’idea di partenza di Io sono Tempesta arriva direttamente dalla cronaca politica. La condanna di Tempesta ricalca quella di Silvio Berlusconi del 2014. Luchetti, con i coautori Sandro Petraglia e Giulia Calenda, è partito da lì per costruire il confronto tra il ricco e il povero, tra l’affarista e il disperato.
Con un personaggio che recupera alcuni elementi del Cesare Botero di Il portaborse, Io sono Tempesta unisce la commedia di costume allo sguardo sociale, senza esagerare nella critica e senza includere la politica, malgrado lo spunto ideale di partenza. La via scelta è quella della leggerezza disincantata, più o meno, che permette di mostrare un mondo quasi archetipico nelle sue contraddizioni. Il ricco è ricco in maniera enorme, vive in alberghi che acquista e vende, non gira con denaro in tasca perché non gli serve e così via. I poveri vivono per strada, si accalcano nei centri di assistenza. Non c’è una classe media, non c’è la normalità. Le studentesse si prostituiscono per scelta, l’assistente sociale a capo della struttura (Eleonora Danco, che potrebbe dare molto al cinema) dove Tempesta è assegnato vive come una suora laica un rapporto quasi violento con la religione.
In un contrasto così marcato il rischio di scivolare verso le banalità è chiaramente in agguato. Così, il ricco è anche insensibile e cinico, mentre i poveri sono felici perché sanno accontentarsi del loro nulla quotidiano. Non sono però questi i problemi principali di Io sono tempesta.
Partendo da uno spunto molto interessante, che riesce a rielaborare l’attualità declinandola in una forma nuova, gli autori non sono riusciti a sviluppare in maniera adeguata tutto ciò che si muove intorno. Al contrario: gli spunti per le trame secondarie, lo scavo psicologico del protagonista, sono vanificati in passaggi privi di struttura, semplificati al massimo per arrivare alla conclusione. Perché Io sono Tempesta soffre, tra le altre cose, di un difetto raro per il cinema italiano: l’eccessiva brevità. Per una volta, uno sviluppo ulteriore rispetto ai 94 minuti complessivi del film avrebbe potuto giovare nella costruzione del finale, che invece così come è offre risposte semplici a domande complesse.
È un peccato davvero, perché lo spettro costante del paragone con il cinema del passato fino a un certo punto viene tenuto sotto controllo. La scelta di Giallini come protagonista mattatore è azzeccata, così come è decisamente interessante vedere Elio Germano nel ruolo secondario di Bruno, il principale interlocutore all’interno della comunità dei bisognosi. Ma le dinamiche tra gli interpreti non bastano. Per un film come vorrebbe essere Io sono Tempesta mancano due ingredienti fondamentali: l’amarezza e il grottesco.
Senza uno sguardo cinico sull’Italia di oggi si finisce nel binario già eccessivamente trafficato del buonismo, del lieto fine a tutti i costi. Ed è quello il capolinea di Io sono Tempesta.
(Io sono Tempesta, di Daniele Luchetti, 2018, commedia, 94’)
LA CRITICA
Daniele Luchetti parte da un’idea iniziale molto interessante ma non riesce a tenere il passo della sua stessa idea, finendo per accomodarsi su sviluppi semplici e prevedibili malgrado la qualità degli interpreti.
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