Disgregazioni familiari

“Il contrario delle lucertole” di Erika Bianchi

di / 24 aprile 2018

Copertina di Il contrario delle lucertole di Erika Bianchi

Tutto ruota intorno alla famiglia. Tante storie, ogni giorno, sia nel bene che nel male, riconducono alla famiglia. Qualche volta le ascoltiamo dagli altri, amici, colleghi, parenti, televisione, talaltra siamo noi a raccontarle. Alcuni fatti finiscono sui giornali, altri, in modi diversissimi, diventano dei romanzi. La famiglia è il luogo spesso del non detto, della dissimulazione, dei silenzi, dei tradimenti e dei rimorsi tardivi. Il contrario delle lucertole di Erika Bianchi (Giunti, 2017) parla di una famiglia, nell’arco di quattro generazioni, fatta di persone che avrebbero dovuto amarsi ma che non l’hanno fatto. Le vicende, ben impostate nella cornice storica e nel ritmo, seguono un percorso ascendente, come un nastro che si riavvolge: dal 1948 ai nostri giorni.

Era il 1948 quando Zaro Checcacci, un giovane meccanico di biciclette, partì dal borgo fiorentino di Ponte a Ema coronando il sogno di partecipare al Tour de France nella squadra di Gino Bartali, suo conterraneo. Quel Tour passerà alla storia perché il non più giovane campione lo avrebbe vinto per la seconda e ultima volta. A Dinard, sulla costa bretone, il diciassettenne Zaro si ritrovò così a festeggiare con gli altri una tappa vinta dal carneade Rossello (perché Bartali gli doveva un favore) nel locale dove lavorava la quindicenne Lena. Nove mesi più tardi nascerà Isabelle.

Esattamente dieci anni dopo, nel 1959, a Ponte a Ema nell’officina di biciclette di Zaro, ormai sposato e padre di un bambino di nome Nanni, si presentano Lena e Isabelle. Zaro non vorrà mai riconoscere la bambina anche se tra Isabelle e Nanni si instaurerà un rapporto di fratellanza.

Isabelle, suo malgrado, diventerà madre di Marta e Cecilia, che in modo diverso porteranno le stigmate del suo passato. Isabelle è quel tipo di donna che rifiuta di appiattirsi sulla sua sola maternità rinunciando alla propria libertà. Vive le figlie come un handicap, una zavorra, un limite al punto da non udire il lamento di dolore della più piccola.

L’esistenza è qualcosa di grande e complesso e le relazioni necessitano di cura e dedizione. Isabelle un giorno se ne va dal tetto coniugale. Del resto, come ci insegna certa psicanalisi, la presenza senza desiderio e parola può essere ben più deleteria dell’assenza fisica di una madre che però sa usare le giuste parole al momento giusto. Ma Isabelle non è brava neppure in quello.

Cecilia somatizza e coltiva l’arte di cannibalizzare la propria vita e quella di chi la circonda cadendo nel vortice dell’anoressia. È difficile crescere senza riconoscersi nel volto, nelle parole e nei passi di chi ci ha generato. Una madre dovrebbe alleviare l’angoscia, non procurarla, togliere alla vita quel senso di abbandono che latente ci accompagna, non accentuarlo.

Cecilia ha come un grumo emotivo nella gola che le impedisce di mangiare, avverte un vuoto, scavato da assenze dolorose, che la divora dentro. Il vuoto esistenziale si fa largo finendo per occuparle la mente e noi la seguiamo lungo il suo calvario personale.

Scrive la piccola Cecilia al padre: «…io penso che noi siamo proprio il contrario delle lucertole. Perché il pezzo di coda che abbiamo perso, a noi non solo non ricresce, ma continua a farci male, come l’arto fantasma degli amputati».

Erika Bianchi fa deflagrare con la miccia della narrativa il disagio e il dramma di sentirsi stranieri a casa propria, la solitudine e lo smarrimento della disgregazione familiare: «E insomma in questo pezzo di famiglia dove le leggi che regolano i legami fra padri e figli, tra madri e figlie, sono sovvertite fin dal primo giorno, sconvolte in favore di altre leggi su cui si cresce sbilenchi e disgregati; in questa frangia di gente meticcia che si è aggiunta alla vita di Nanni come un pezzo di casa abusiva, come il gabinetto sul ballatoio pencolante della prima casa di Isabelle e Carlo a Trastevere; anche qui c’è stato e c’è amore, c’è stata e c’è vita dopo l’abbandono, dopo la morte».

Il racconto è orchestrato in modo da alternare momenti narrativi sulle inevitabili turbolenze dei legami affettivi a digressioni di più ampio respiro in corsivo: sono le favole narrate dal padre etologo di Marta e Cecilia con protagonisti gli animali, specchio dei sentimenti e dei comportamenti degli esseri umani. L’autrice inanella un girotondo di punti di vista per cui il lettore si ritrova ad essere complice di uno sguardo che non riusciamo a capire quanto sia vittima o responsabile di una difficile storia familiare che corre tra la Maremma di Ponte a Ema a Roma.

 

(Erika Bianchi, Il contrario delle lucertole, Giunti, 2017, pp. 312, euro 16)

 

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LA CRITICA

Immerso in un albero genealogico piuttosto frondoso, Il contrario delle lucertole fa implodere i conflitti relazionali del nostro tempo in cui si incontrano mondi diversi e fra loro distanti.

VOTO

7/10

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