Nove backstage editoriali per riassaporare grandi scritture

Intervista a Gabriele Sabatini, autore di “Visto si stampi”

di / 26 luglio 2018

Copertina di Visto si stampi

Uno dei grandi meriti di Visto si stampi di Gabriele Sabatini (ItaloSvevo, 2018) è riportare alla luce le storie dietro ai capolavori della letteratura del dopoguerra (con un antefatto situato negli anni venti): l’autore ci accompagna nelle opere, che al principio sono manoscritti e che, via via, si circondano di numerose figure prima di essere pubblicati e magari diventare dei best seller. Un viaggio affascinante che dipana il rapporto tra editore e autore, tra critici e giornalisti di allora, tra grafici e censori.

 

Da dove nasce l’idea di un libro così particolare?

Da una domanda. Un quesito che mi ero posto e al quale, benché il libro sia terminato e pubblicato, non so dire se abbia trovato una risposta esauriente: quali erano state le prime recensioni, la prima accoglienza critica di libri che diamo – tra virgolette – per scontati, perché ormai entrati nel canone? E come avremmo scoperto questo o quell’autore? Oggi il primo incontro con un libro che non conosciamo avviene magari tramite qualche social, o tramite la radio o – certamente – attraverso le recensioni: quali voci ci avrebbero fatto scoprire all’epoca questo o quel libro?
Poi, come sempre, i progetti mutano in divenire, e mi sono imbattuto in una certa messe di materiale che raccontava i fatti antecedenti alle pubblicazioni. E siccome mi divertivo a leggere quelle lettere, quei diari, e tutto ciò che raccontava il lavoro sul libro prima della stampa, allora ho deviato il mio percorso.

 

Nove vicende piene di interessanti retroscena che fotografano il mondo editoriale di un momento storico di “ricostruzione intellettuale”, dalla pubblicazione all’accoglienza della critica. Come hai proceduto per scovare aneddoti e circostanze?

Se ci penso, posso dire di aver proceduto seguendo tre canali: il primo è stato quello di lavorare in emeroteca per trovare gli articoli apparsi sui giornali dell’epoca; ma molto utili si sono rivelati gli atti di convegno, in cui spesso convergono testimonianze e ricordi di persone che sono state vicino o hanno lavorato con gli autori. Se esistono gli atti di convegni organizzati per il decennale della morte di un autore, lì qualcosa in cui pescare c’è di sicuro. Poi, naturalmente, un debito a vario titolo l’ho contatto con i molti autori di biografie, e con i curatori di carteggi e diari, fonti inesauribili per ricostruire il “percorso” di un libro.

 

Quale è la vicenda editoriale a cui sei più legato?

Tendo a rispondere quella di Il cielo è rosso di Giuseppe Berto (ma poi se mi rifai questa domanda tra una settimana magari ho cambiato idea). Il romanzo narra la storia di quattro giovani sopravvissuti al bombardamento americano di Treviso, quattro destini segnati terribilmente dalla guerra. Berto lo elabora quando era prigioniero in Texas: una storia immaginata e scritta nella baracca di un campo di prigionia, buttata giù a migliaia di chilometri dall’Italia.
La vicenda della pubblicazione è poi ricca di episodi: Comisso consiglia a Longanesi di pubblicarlo, ma il dattiloscritto che gli aveva spedito non giunge mai a destinazione, perché sulla busta era stato segnato l’indirizzo sbagliato (con la conseguenza che Berto, stufo di aspettare una risposta che non sarebbe mai potuta arrivare, va a Milano e scopre che la sede della casa editrice era da un’altra parte). Il titolo viene cambiato dall’editore senza che l’autore sapesse come, e Berto lo scopre solo entrando in libreria ma non se ne dispiace. L’0pera è poi soggetta a quello che Berto stesso proclama come un inconsapevole approccio neorealista. Ma ci troviamo di fronte a un testo che allegorizza la storia; e così non importa più se i pensieri e le azioni di Daniele – il protagonista – siano o meno plausibili con quelli di un suo coetaneo dell’Italia di allora.

Dulcis in fundo: Il cielo è rosso si è piazzato ultimo nella prima finale del Premio Strega prendendo solo 7 voti. Insomma, c’è di che innamorarsi…

 

A vincere il premio Strega quell’anno fu un altro romanzo edito da Longanesi.

Esatto: Tempo di uccidere di Ennio Flaiano. Il capitolo dedicato a Flaiano inizia con un aneddoto che di nuovo chiama in causa i titoli: l’autore lo aveva intitolato Il coccodrillo, ma Longanesi aveva già pubblicato La vita del camaleonte di Fernand Angel e Parliamo dell’elefante dell’editore medesimo. Suggerì un nuovo titolo per non correre il rischio di trasformare il catalogo in un «giardino zoologico».
La storia narra le vicende di un tenente dell’esercito italiano in Abissinia, ma i fatti bellici sono sullo sfondo. In realtà, quello di Flaiano – un unicum nella sua carriera di testi brevi – è un romanzo sul caso, sul senso di colpa e sulle responsabilità guerrafondaie degli italiani. L’accoglienza critica non fu delle più entusiaste (sebbene il testo avesse vinto lo Strega realizzando l’ambizione longanesiana di battere Moravia) e mi pare esemplare di un modo di fare critica la stroncatura che arrivò dalla penna di Giacomo Debenedetti, e che forse vale la pena di citare: «Prima Flaiano aveva seguito il suo inquietante protagonista come si sorveglia un sonnambulo sul cornicione, soffrendo le vertigini per lui. […] In un romanzo come Tempo di uccidere bisogna che l’autore rimanga fino all’ultimo infettato dal personaggio: è la sola maniera di partecipare alla sua avventura e di far partecipare chi legge. Flaiano, viceversa, conduce lo sperduto e ignaro tenente attraverso un labirinto di cui egli conosce le giravolte, le cattive e le buone strade, gli ingannevoli incroci e le uscite. [Ma] ha dovuto scrivere un ultimo capitolo per chiudere i buchi che le troppe combinazioni, simmetrie, coincidenze, avevano finito con l’aprire. Che sarebbe come, per un cultore di enigmistica, ricorrere alla rubrica: soluzione del gioco precedente».

 

Esiste un filo conduttore che è quello della letteratura che nasce dopo la guerra e la dittatura e cerca di raccontarla attraverso chi, ciascuno con un ruolo diverso, l’aveva vissuta direttamente.

Il filo conduttore esiste e mi sono concentrato su quella fetta di letteratura e di casi editoriali che ci mettono di fronte al come si è vissuto. Perché una domanda che mi pesa spesso sulle spalle è appunto: cosa avrei fatto io? Come mi sarei comportato e come mi comporterò domani, quando arriverà un nuovo fascismo? E cosa sto facendo ora per contrastarne la sua manifestazione più efferata? E, sai, non è detto che la risposta mi conforti. In questi libri, la vita viene messa di fronte a scelte irreversibili che riguardano sé stessi e la collettività tutta, un cosa che oggi possiamo immaginare solo facendo uno sforzo di concentrazione.

 

E poi c’è un grande romanzo sul dopoguerra in cui una storia d’amore è diventata un classico da studiare a scuola…

So a cosa ti riferisci perché ne stavamo parlando prima di cominciare l’intervista: La ragazza di Bube di Carlo Cassola. È una bella storia d’amore, ispirata a vicende vere, che hanno stupito lo stesso autore. Non tanto per i fatti narrati, ma proprio per la forza dei sentimenti espressi dalle persone reali che hanno ispirato il romanzo. Ambientato negli anni del dopoguerra racconta di Bube, un ragazzo reduce dalla Resistenza e del suo amore per Mara, una giovane semplice che attenderà il suo amato anche dopo la lunga condanna in carcere.
È un libro che suscita non poche critiche soprattutto a sinistra (e ricordiamoci che già con Fausto e Anna, Cassola aveva provocato l’intervento di Palmiro Togliatti che su Rinascita lo accusò di vilipendio alla Resistenza); ma soprattutto è famosa l’accusa di Pasolini, che attacca Cassola per aver ucciso il neorealismo, e lo fa alla maniera shakespeariana, parafrasando il discorso funebre che Marco Antonio dedica a Giulio Cesare.
Eppure, tutto questo non ferma la fortuna di La ragazza di Bube, basti pensare che quando nel 1965 la Mondadori inaugura gli Oscar, subito dopo Hemingway con Addio alle armi, spunta proprio Cassola: primo titolo italiano in quella fortunatissima collana.

 

Hai colto anche il trasformismo dell’Italia che passa dall’essere interamente fascista a disconoscere il Ventennio e poi il cambiamento: l’editoria che stava nascendo, l’intuito di Longanesi per esempio, come racconti sul finire di Visto si stampi.

Uno dei capitoli si intitola proprio L’Italia che si ricicla ed è dedicato a Il vecchio con gli stivali di Vitaliano Brancati. È un racconto lungo che esce in raccolta sotto l’insegna di Bompiani nel 1946. Il tema di fondo è appunto questo: gli italiani si sono lavati dalla lordura del loro essere stati fascisti semplicemente cambiando il distintivo all’occhiello della giacca. Occorre però fare attenzione, perché l’accusa che brancati lancia non è a una generazione specifica, ma a un popolo tutto, e certamente riguarda anche noi oggi. Il vecchio con gli stivali rappresenta, per dirla con Marco Dondero, la prima azione di una «vera e propria battaglia intellettuale» intrapresa da Brancati contro i sedimenti del ventennio.

 

È vero che Longanesi non leggeva i libri ma sapeva annusarli?

Sì, è Indro Montanelli, che con Longanesi collaborava, a raccontare di questa capacità – diciamo così – olfattiva. Longanesi, al principio della sua avventura editoriale, aveva necessità di stampare molto per dare sostanza al catalogo della casa editrice, fu un animatore culturale potente, che scelse di lavorare a Milano perché, diceva, «Milano ti viene incontro, ti fa fido, ti apre il conto in banca. In compenso, ti chiede soltanto di ammirare Toscanini, di credere all’articolo di fondo di Mario Borsa, di rispondere alle lettere e di essere puntuale agli appuntamenti».

 

Visto si stampi in apparenza sembra un libro per gli “addetti ai lavori” ma si scopre immediatamente per la narrazione fluida e i racconti che non è affatto così…

Sarebbe bello se questo piccolo libro riuscisse a parlare a addetti e non addetti ai lavori. Se così fosse, ne sarei molto contento.

 

(Gabriele Sabatini, Visto si stampi. Nove vicende editoriali, ItaloSvevo, 2018, pp. 88, euro 12,50)
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