Gesù ritorna e parla di calcio e donne
Ivano Porpora, “L’argentino”
di Daria De Pascale / 17 dicembre 2018
«Che poi, chi ci ha mai detto che Gesù non fosse un cavaliere ammattito che barcolla per le vie della Spagna?» Il significato dell’apparizione dell’Argentino, l’uomo che dà il titolo al terzo romanzo di Ivano Porpora (Marsilio, 2018), è senza dubbio messianico.
Chi è quest’uomo misterioso che «l’Argentina manco in foto l’aveva vista» e che arriva un giorno in un paese della Spagna franchista – un luogo sospeso nel tempo e nello spazio, che se non per il nome e pochi dettagli potrebbe essere qualunque paese del Mediterraneo più povero – a sconvolgerne i lenti equilibri, se non un nuovo Cristo? E Verano, il narratore, chi è se non un apostolo scelto per stargli accanto e continuare a predicare per il mondo dopo la sua scomparsa?
Solo che Verano è un adolescente in piena tempesta ormonale, carico di noia esistenziale e di piccoli problemi di ragazzo di campagna, e l’Argentino è un «santo bastardo, o una specie di incrocio tra il Cristo e l’Iscariota».
L’Argentino accoglie con tenerezza le debolezze dei pochi buoni, ma poi spinge Verano a colpire con un sasso un cane malato per mostrare di essere anche lui un «bastardo»; e smaschera i cattivi, sfidando il parroco a suon di citazioni della Bibbia, e a tavola il ricco macellaio, il vero padrone del paese.
Ingaggia, soprattutto, una battaglia da far west con Rosario, rappresentante del male assoluto del paese, che non a caso lo riconosce subito in quanto portatore del bene, e lo teme. Solo che, in realtà, Rosario è solo il capo di una banda di ragazzi nemica a quella di Verano, una sorta di Bimbo sperduto di Peter Pan, che più che di un duello avrebbe bisogno di una madre che si prenda cura di lui.
Questo nuovo Cristo torna sulla Terra a diffondere il Verbo, e ancora una volta subisce la diffidenza e poi la cattiveria degli uomini. Tuttavia, è un Cristo arrivato con poche verità e poca misericordia, e in compenso con una buona dose di arrogante paternalismo; e non è venuto per redimere, ma solo per umiliare i paesani per le loro piccole e grandi miserie umane, ammonendoli con un vago: «Non imparate mai».
Ciò che sfugge, della persona dell’Argentino così come di tutto il racconto, è il pensiero che lo sostiene. Leggendo il romanzo, viene spesso da domandarsi il perché di ciò che si sta leggendo. A cosa serve, ai fini di un racconto di questo genere, una scrittura densa e ricorsiva – di per sé anche musicale e affascinante – come quella che usa Porpora, carica di epiteti e ripetizioni? Il meraviglioso si esprime al meglio con parole semplici. Cosa aggiungono le frequenti lunghe digressioni, che dilatano la storia costringendo l’autore a riprenderla più e più volte, come se ne perdesse a tratti lui stesso il filo?
Cosa insegnano davvero le perle di saggezza popolare, i «si sa» (di cui trovo sia sempre meglio diffidare, perché non sempre ciò che penso io corrisponde a ciò che sanno tutti), gli insegnamenti à la Coelho?
La risposta è che tutto questo serve a indorare la pillola. A mascherare cioè con una bella prosa un vuoto di contenuto, o forse il fatto che il tema reale del romanzo è molto più prosaico della cornice messianica e post-religiosa.
Ed è riassumibile nell’intramontabile binomio calcio-donne.
A guardare oltre la nuvola di parole che Porpora ben compone, L’Argentino non è che l’ennesima storia di un adolescente, appassionato di calcio e in preda all’impeto ormonale, raccontata da un sé anziano e solo apparentemente più maturo.
Non c’è capitolo in cui non si ripeta la formazione degli amici con cui si gioca al campetto, e quale grande calciatore del Real Madrid ognuno impersona, a volte calciando un maglione arrotolato come un pallone.
E non c’è capitolo in cui, nel pieno della storia così come nel vortice delle digressioni, non si faccia accenno a una coscia di donna, a un respirino, a un buco da lavare, a un uccello e a un’erezione, a una donna sdraiata o a carponi che dice ancóra.
Dal pensiero fisso non sono risparmiate neanche le donne della famiglia – di solito, almeno quelle, angeli del focolare: Estrella, la sorella del protagonista, compare sempre e solo in quanto oggetto sessuale, «meravigliosa nella sua vestaglietta da nulla», o con la sua «scollatura voluttuosa», o come immagine da usare per masturbarsi; della madre si nomina il santo buco da cui è uscito il protagonista, il suo essere prima picchiata dal padre, e poi oggetto del desiderio – innocente, suvvia! – di un vicino.
L’Argentino appare quindi così speciale per il discepolo Verano perché gli mostra come far cadere ai suoi piedi ogni donna che vuole, anche quando lei a parole dice di odiarlo, e perché gli insegna le cose (davvero?) importanti della vita attraverso metafore sul Bernabéu e la formazione del Real.
Un Cristo perfetto per «un’epoca in cui la riflessione a vuoto troneggia sull’impasto di polvere e acqua; e poi bla, e bla, e bla ancora». Venuto a ricordarci che le donne non vanno picchiate o maltrattate come fanno i cattivi del paese, per carità, ma solo scopate, dentro e fuori dal matrimonio; che possono essere tradite anche se amatissime, se viene la fregola. Ché tanto tutte sotto sotto vogliono solo «il bastone»: basta solo, come insegna l’Argentino, trovare il modo giusto per convincerle. Ma questo non c’è bisogno che venga Gesù a dircelo.
(Ivano Porpora, L’argentino, Marsilio, 2018, pp. 164, €16.00)
LA CRITICA
Dietro l’arrivo di un nuovo Messia, si nasconde solo la strana formazione di un adolescente in tempesta ormonale
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