Tutte le luci sono spente

A proposito di “Il ritorno di Coniglio” di John Updike

di / 24 gennaio 2019

Copertina di "Il ritorno di Coniglio"

Sono passati dieci anni dalla prima fuga di Coniglio. Anni difficili, questi, «di sgobbo alla linotype, di indizi di debolezza, di un cedimento nell’insignificante». Sono stati gli anni d’oro dei Sessanta e il primo vero tentativo, da parte dell’America, d’imposizione nel mondo. Sono stati, a pensarla così, anni di luce dopo un lungo periodo di buio. È cambiato il mondo, dall’ultima volta che Updike ce lo aveva raccontato. Eppure l’incipit del romanzo, che contiene gli elementi essenziali che andranno poi a caratterizzarlo, è una sorta di ribaltamento di fronte che appare perfino inaspettato. Se nel primo libro Updike aveva scelto di aprire mostrando la disillusione del suo protagonista, in Il ritorno di Coniglio l’invecchiamento di Harry coincide con l’ascesa culturale degli Stati Uniti, che viene però presentata nelle sue palesi contraddizioni, attraverso un’esaltazione volutamente piena di contrasto, spesso amara o addirittura glaciale.

I progressi del proprio Paese e del mondo – il cinema di fantascienza, le navicelle spaziali, la televisione a portata di tutti – non hanno risollevato Harry, e l’hanno forse schiacciato maggiormente nell’inconsistenza della propria vita, a guardare da vicino la propria inettitudine e i propri fallimenti. Harry è ingrassato, ha perso il proprio smalto, si è piegato a un lavoro ordinario. «Sono passati ormai molti anni da quando lo chiamavano Coniglio».

Nel frattempo Janice, sua moglie, è andata via e Ma’, sua madre, si è ammalata di Parkinson. Adesso anche loro, queste altre due donne così importanti per lui, sono un’immagine da scacciare. Come già gli è accaduto, il rifiuto dell’immagine reale sfocia per Coniglio in una suggestione fantastica o in una rievocazione modificata, e ora che Ma’ è tutt’ossa e rantola le sue ultime parole, gli viene da pensarla quand’era ancora giovane come non ha mai avuto modo di conoscerla. E pensa: ha mai tradito papà? In questa domanda – che Coniglio sopprime perché non ha abbastanza confidenza con suo padre per poterglielo chiedere – Updike sottende una colpa singhiozzata che non trova espiazione, ma che ha bisogno di conforto, nell’ordine mancato del mondo. Sono tutti colpevoli, forse, o forse non è colpevole nessuno, perché non ci è ancora chiaro il Disegno, perché le ombre offuscano il Bene, che resta baluginante e indefinito.

La poetica del contrasto in Updike – questi contrasti che non sono mai schematici – risulta in questo volume ancora più evidente che in precedenza. C’è un contrasto per gli ambienti – gli interni e gli esterni, che sono quasi sempre l’intimità e lo sguardo del mondo (e di Dio?) –, uno per il tempo – prima e adesso, pace e guerra – e un altro per gli uomini – i bianchi e i neri, in una lotta che non si risolve e che probabilmente esula anche dal razzismo – ma soprattutto un contrasto ininterrotto tra luce e ombra, tra giorno e notte.

E anche le luci si sfumano, non tutte sono pure allo stesso modo («gli uomini escono dalla tipografia: pallidi, spettrali per qualche attimo, abbacinati finché la luce esterna cancella quell’espressione da continua luce artificiale che si portano dietro»). Ci sono le luci delle candele, le luci a neon sulla superstrada o nelle insegne dei motel, le luci delle finestre (e le finestre che non fanno luce) e le luci del cielo, quella pallida della luna o quella accecante del sole. Ognuna di esse ha un significato particolare e decisivo, anche quando manca. Se questa storia fosse un film, si direbbe senza sbagliare: ha una bella fotografia.

Torniamo al primo contrasto e cerchiamo di risolverlo. In Corri, Coniglio, soprattutto per quanto riguarda la prima parte, gli ambienti della scena erano perlopiù esterni e rappresentavano, nell’indefinitezza degli spazi, una via di fuga dall’oppressione – dalla limitatezza, appunto – domestica.

Dieci anni più tardi è Janice a scappare, ma la “camera” di Updike resta su Coniglio, che è ormai un impiegato e un padre di famiglia (pur con le sue negligenza), e che è quindi vincolato, o rassegnato, agli ambienti interni. L’ufficio, l’ospedale, la casa: Harry non scappa più, ma gira intorno a se stesso. Ci sono poi le finestre – e mai le porte – come il segnale di una fuga pensata e non più attuabile, il tramite per guardare un mondo che non può più essere vissuto appieno. («La sua unica finestra dà su un passaggio senza sole tra le case»). C’è naturalmente la televisione, presenza invasiva ma che comunque non distrae, e anzi diventa mezzo di rievocazione di ricordi. C’è il Cinema sullo sfondo, ci sono i continui rimandi a Kubrick e al suo 2001: Odissea nello spazio. Erano, quelli, i tempi dell’allunaggio e delle prime esplorazioni spaziali. Sembra quasi che Updike voglia suggerire al lettore una domanda: e se non ci fosse più salvezza su questo pianeta, se fosse troppo piccolo per poter scappare? Se non ci restasse altro che lo spazio, che invece è lontano e infinito?

Il secondo contrasto, quello temporale, è il più chiaro e raramente viene soltanto alluso; quasi sempre Updike lo sottolinea in modo esplicito e le visioni di Harry, nel loro vivido distacco fra l’una e l’altra, diventano quelle del lettore.

C’è poi il contrasto tra gli uomini, e quello resta il più complicato da sbrogliare. L’atteggiamento dell’autore non è fazioso né ideologico – e anzi la dialettica di Skeeter risulta spesso più convincente del patriottismo insicuro di Harry – e soprattutto non sfiora mai la retorica. La guerra, di cui si parla e non si racconta, si trova a essere, paradossalmente, l’unico luogo – e il campo di battaglia è un ambiente esterno, non a caso – in cui ogni uomo è uguale all’altro. A dirla tutta, è forse il solo luogo – e il solo momento – di piena fratellanza (Ungaretti si rivolgeva ai soldati chiamandoli proprio così: fratelli).

Ancora una volta la presenza di Dio si nota solo per contrasto – e dopotutto quello tra reale e percepito, o sentito, è solo un riflesso del contrasto tra la concretezza degli uomini e l’astrazione degli dèi. In Sua assenza, si scatenano i falsi profeti e tocca quindi agli uomini, che sono soltanto uomini, rivestire il ruolo di Dio.

I risultati non possono che essere disastrosi. Ma senza alibi. Se anche Dio non esistesse, non sarebbe una scusa valida: agli uomini tocca fare gli uomini, e farlo al meglio delle loro possibilità. «Per lui la colpa si ferma e resta nel mondo degli uomini, non ha altri posti dove andare».

Quando anche questa storia finisce, Coniglio ha perso di nuovo. Ha perso la fede («Mi sarebbe piaciuto crederci, ma sono troppo razionale».) e l’amore di suo figlio («il ragazzo ora mi odia per davvero»). Ha perso Jill, qualunque cosa fosse (l’illusione di un nuovo amore, il riflesso di una giovinezza perduta, un sostitutivo alla bambina, un bel corpo da guardare). Ma sono tutte perdite momentanee, perché la vita non l’ha persa ancora. Sono soltanto buchi da tappare, un ostacolo che si aggiunge alla via irraggiungibile della spensieratezza, un peso nell’estasi dei prossimi orgasmi. Harry e Janice si stringono tra le lenzuola dopo il sesso che non c’è stato. Come sarà il risveglio? Di quanto tempo abbiamo bisogno per arrenderci? Ci penseremo domani. È notte, adesso – e di notte possiamo reinventare il mondo. Spegniamo le luci.

 

(John Updike, Il ritorno di Coniglio, trad. di Attilio Valardi, Einaudi Stile Libero Big, 2015, pagg. 500, €22)
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