Dell’imprevedibilità della natura umana

A proposito di “Ovunque sulla terra gli uomini” di Marco Marrucci

di / 21 marzo 2019

Copertina di Ovunque sulla terra gli uomini di Marco Marrucci

Il libro d’esordio di Marco Marrucci è un’ulteriore dimostrazione della missione culturale che Racconti Edizioni si è imposta: rendere protagonista la peculiarità della narrazione breve e investire nella ricerca di voci straniere e nuovi protagonisti italiani che sappiano valorizzarla. La strategia editoriale ha quindi puntato sul recupero di grandi autori, magari pubblicati dai grandi editori o dimenticati nei meandri dell’editoria indipendente: ne sono esempi Stamattina stasera troppo presto di James Baldwin, Bere caffè da un’altra parte di ZZ Parker e Una coltre di verde di Eudora Welty. A rafforzare quella che altrimenti sarebbe solo stata la riedizione di lavori già visti tra gli scaffali contribuisce il lavoro di ricerca degli autori esordienti: ad aprire le fila c’è stato il talentuoso Elvis Malaj , poi Michele Orti Manara. L’ultimo arrivato è proprio Marco Marrucci con Ovunque sulla terra gli uomini (Racconti Edizioni, 2018).

California, Tessaglia, Marrakech, San Salvador, Uppsala, sono solo alcuni dei luoghi che popoleranno la mappa immaginifica della raccolta. Una vera e propria caratterizzazione topografica, tuttavia, non arriva a costruirsi nella mente del lettore perché più che ai luoghi e alla descrizione di spazi fisici, la scrittura di Marrucci si muove nel ricamo metodico di una realtà a tratti metafisica. L’accento del titolo nominale si sposta progressivamente da “sulla terra” a “gli uomini” rendendo questi ultimi i veri protagonisti: leggiamo di fissazioni orrorifiche come quella dello chef in “Contaminazione”, storie d’amore misteriosamente tormentate in “Gombo e Tuya”, rivelazioni quasi fiabesche come in “Il diario di Manuelita”.

In una raccolta di racconti del genere il filo di congiunzione diventa non tanto la capacità di saper cambiare ambientazione, ma di sfociare nell’imprevedibilità della natura umana e di saperla contenere in confini molto precisi. Tali confini in Marrucci corrispondono a un controllo rigido della lingua.

Nei racconti si alternano diversi registri narrativi – a titolo di esempio si prenda una narrazione retta da soli dialoghi come in “Le notti sopra la Tessaglia”, o una riflessione claustrofobica come in “Contaminazione” – tutti sapientemente gestiti ai fini del tono da fiaba borgesiana e tutti misurati dalla ricerca del termine e dalla complessa costruzione del periodo.

Le storie non si lasciano andare al realismo magico ma stazionano nel tono di fiaba e folklore, come a voler recuperare le origini orali delle storie. A far scricchiolare parte di questo meccanismo tuttavia arriva una sovrabbondanza di costrutti che rischiano di oscurare il vero stile dell’autore. I sintagmi nominali sono farciti di aggettivi non sempre necessari alla riuscita del periodo («ombra frusciante della vegetazione», «villaggi ardimentosi», «ghigno luciferino», «autentica penetrazione», «audaci ripartenze», «bocca gioiosa e instancabile») e che creano una sovrabbondanza scenografica («intravide una macchia vermiglia rosseggiare»). Sono presenti accostamenti sinestetici dalla musicalità eloquente ma poco funzionali alla riuscita del periodo («tristezza pallida e antica», «tremule congetture», «cielo moribondo»).

Il lavoro sul testo avrebbe dovuto controllare anche ampi intermezzi descrittivi che non fanno che rallentare la narrazione e creare una patina di attesa che mal si addice al ritmo del racconto. L’avvilupparsi di metafore resta affascinante fino a quando non ripete o rallenta la lettura. A titolo di esempio basta prendere una parte di “Il diario di Manuelita”: la metafora del filo del ricordo prosegue e viene ripresa nella parte centrale del racconto in un punto che appare fine a se stesso: «Il filo rosso è il più lungo e ingarbugliato di tutti, perché è annodato con migliaia di circostanze, domande, recriminazioni e solitudini che coprono un arco di nove giorni. Mentre lo discendo con la fatalità di un ragno che padroneggia ogni biforcazione della propria ragnatela assaporo una tristezza pallida e antica che ingrassa lentamente, mi inchioda al passato e giudica le mie colpe. è un nettare amaro, un fiele che non posso rifiutarmi di bere perché è incorporato nelle traiettorie della discesa e del ricordo, è esso stesso la discesa e il ricordo.
Giunta a un punto sempre variabile della china (non percorro mai la miccia scarlatta per intero, non so cosa potrebbe aspettarmi alla fine) le mie peregrinazioni vengono dirottate con forza sul filo azzurro».

Se nell’ambito dell’intertestualità si riconoscono le atmosfere e le intenzioni borgesiane, l’alone di mistagogo di Marrucci lo abbandona in punti come quello citato in cui il racconto lascia il posto a un esercizio stilistico, sicuramente ricercato e affascinante, ma inadatto alla priorità del narratore di storie.

Ovunque sulla terra gli uomini ha dalla sua parte una spinta fantastica non indifferente, una varietà di storie e stili, ma costituisce una lettura con riserva: chi scrive ha iniziato un percorso che dovrebbe perfezionare con esercizi successivi.

 

(Marco Marrucci, Ovunque sulla terra gli uomini, Racconti Edizioni, 2018, pp. 117, euro 14, articolo di Fabrizia Gagliardi)
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LA CRITICA

L’esordio di Marco Marrucci mostra un abile uso della lingua e una ricercatezza del termine che tuttavia rischiano di sminuire e rendere barocca la narrazione.

VOTO

5/10

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