Gli effetti collaterali delle alpi

“Fuori per sempre” di Doris Femminis

di / 1 ottobre 2019

copertina di fuori per sempre di doris femminis

Di montagna si può impazzire. E non nel senso di adorazione maniacale da macchie di muschi o guglie di roccia. Nel senso di smantellamento della ragione. Secondo uno studio attuato dagli psichiatri dell’Università Medica di Innsbruck e dalla medicina di emergenza della Eurac Research Bolzano esiste la probabilità tangibile che possano insorgere delle problematiche psichiatriche legate all’alta quota. I pensieri rarefatti, l’aria sfuggente ed ecco che il danno è a portata d’azione.

A ciascuno il suo guasto. Luca D’Andrea negli ultimi anni ci ha ragguagliato sui “rischi d’altura” con i suoi due romanzi La sostanza del male e Il respiro del sangue per non scomodare anche Lovecraft con il suo pioneristico Le montagne della follia.

Questo ovviamente è un altro caso. Non siamo in Antartide né in Alto Adige. Ma nemmeno così distanti. A incorniciare Fuori per sempre di Doris Femminis (marcos y marcos, 2019) sono le Alpi Svizzere. La protagonista è Giulia, ragazza impastata nei propri tremori che, dopo una sera imbizzarrita a base di guida e pastiglie, si ritrova ricoverata in un ospedale psichiatrico. E la notizia non la rallegra affatto. Sbraita, scalcia, sperimenta la fuga, recalcitra davanti a ogni sorta d’aiuto. I dottori sono nemici, le impediscono il viaggio che le scalpita dentro. Una di loro, Elena Sortelli, le si avvicina, ma riceve solo spigoli per ricompensa.

D’altronde da Giulia non ci si può aspettare molto di più. Sua madre Carmela ha sfornato troppi figli dei monti e ha lasciato che crescessero da soli, perché lei era impegnata ad assentarsi da loro. Senza uscire di casa. In una stanza in cui spesso era meglio non entrare, dove far galleggiare tutte le ombre. «Gli occhi matti ballavano qua e là in un’agitazione che sembrava soltanto cercare come calmarsi e non si posava su nessuno, a tratti sembrava che inseguisse una musica lontana». I fratelli «conoscevano il lavoro del sasso e della calce, specialisti in muri a secco, tetti in piode e restauri che accostavano vecchie storterie, muri ondulanti, porte asimmetriche, travi ritorte e assi tarlate a nuove forme lisce, pure e metalliche».

Ma Giulia non ha la pelle d’intonaco o le parole di malta e quei fratelli sembrano sordi alla sua voce. Poi arriva l’ultima figlia, Annalisa, sbucata da un amore imprevisto. Carmela che s’innamora quando non deve, di chi non si può, qualcuno molto diverso dal suo Franco molle e paziente. E la bimba è un frutto troppo dolce anche se caduto dall’albero sbagliato. Annalisa sa riscuotere da ognuno la parte migliore, sa estrarre nettare da braccia e intenzioni.

Poi accade qualcosa. Di tragico, d’irreparabile. Annalisa diventa un grumo da sciogliere, una porzione segreta. Chi è davvero? Cosa comporta la sua fine? Quella lesione s’incastra nella carne, s’incista lì, nella cerniera tra i giorni e le notti e traccia un ingresso di spine dove l’accesso è sempre negato.

Giulia è piena di parenti, ma senza una vera famiglia e dopo le resistenze d’esordio l’ospedale di Mendrisio diventa un universo confortevole di cui non vuole sbarazzarsi. È troppo debole per ricominciare da sola e da quell’uscio appena aperto s’infila una corrente incustodita.

E in quell’uscio appena aperto irrompe Alex, anima randagia che non si lascia imbavagliare, scaglia meteoritica che disegna per Giulia tutta un’altra traiettoria. Personaggio scomodo il suo, urlante perché bastonato. Troppo rischioso per non assecondarlo.

Doris Femmins, ospite al Festival della Letteratura di Mantova, tratteggia un personaggio screziato e complesso, scolpito dal male di vivere, forse a qualsiasi altezza sul livello del mare, ma il cui disagio si scava un’eco tra quelle montagne, in quei paesi compressi di nubi con porte troppo avare per i propri fermenti.

L’autrice conosce bene i luoghi che inquadra. Li cesella a dovere perché è lì che si è formata, come donna e scrittrice, con quello stesso vento che sembra un rimprovero, con la luce severa imbronciata di neve. Ha lavorato come infermiera in quello stesso ospedale del Canton Ticino, ha studiato psichiatria e sa perfettamente che la mente di freddo e solitudine non si può nutrire a lungo.

La struttura narrativa è semplice e immediata. E le sue pagine hanno pesi differenti. Quelle dedicate alla dottoressa Sortelli e al suo matrimonio che si allenta e si assottiglia fino a perdere il battito, sono precise ma poco accattivanti, mentre la parte migliore è quella riservata al diario di Annalisa, alla mappatura delle sue lacerazioni, dispensate con l’approccio poetico più efficace di tutto il romanzo.

«Resto sveglia al caldo. Strusciano cose, versi di animali, soffi. Esco all’alba, devo muovermi, cammino, cammino, viene il sole, tutto è luminoso, colorato e limpido. Cammino tutto il giorno, un passo dopo l’altro, una battaglia, non mi fermo, non mi arrendo».

I mattini ricoprono il buio, come vernice chiara, ma qualcosa resta ghiacciato. Qualcosa della protagonista, come qualcosa di ognuno di noi, resta stregato da un inverno perenne. Resta Fuori per sempre.

 (Doris Femminis, Fuori per sempre, marcos y marcos, 2019, pp. 352, euro 18, articolo di Cristiana Saporito)
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LA CRITICA

Doris Femminis, ai bordi di un lago gelato, pensa e compone un romanzo efficace sul disagio di vivere di un’esistenza fragile. Più comune di quanto s’immagini.

VOTO

7,5/10

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