Sopravvivere senza le donne
Su "Light of My Life" di Casey Affleck
di Francesco Vannutelli / 29 novembre 2019
Un’esordio alla regia decisamente ambizioso, quello di Casey Affleck. Nove anni dopo il mockumentary Joaquin Phoenix – Io sono qui!, l’attore premio Oscar per Manchester by the Sea si piazza dietro la macchina da presa per Light of My Life, interessante tentativo di aggiornare il filone post-apocalittico che tanto va di moda negli ultimi anni.
In un futuro non meglio definito una strana malattia ha decimato la popolazione femminile. Un padre e la figlia di undici anni si trascinano tra boschi e case disabitate per tenere la bambina al riparo dalle bande di uomini allo sbando.
C’è un grande riferimento dietro a Light of My Life: The Road, di Cormac McCarthy, e la sua versione cinematografica firmata John Hillcoat. Affleck si è ispirato alla distopia più cerebrale e meno d’azione di cui il romanzo premio Pulitzer è uno dei migliori esempi.
Se lì il padre cercava la salvezza verso il caldo del sud per il figlio, qui la meta è il nord e il freddo, lontano dagli uomini. La sparizione delle donne porta con sé anche i bambini, come in I figli degli uominidi Alfonso Cuarón, e lascia intendere un mondo pronto a divorare se stesso. Rimangono dei brandelli di umanità nelle città e in un sistema di distribuzione delle risorse con tessere annonarie, come in guerra.
Gli uomini, però, o forse è meglio dire i maschi, sono pronti a lottare per la possibilità di una donna, ridotti a uno stato primordiale di istinto e desiderio.
Casey Affleck scrive, dirige e interpreta un wester post-apocalittico che non vuole essere d’azione, ma di riflessione. L’intenzione è chiara dal primo piano sequenza, in cui il padre racconta alla bambina una favola inventata su una volpe e l’Arca di Noè, e si manifesta completamente quando i due parlano della differenza tra etica e morale.
La sceneggiatura prende molti dei temi classici del mito statunitense della natura come luogo di salvezza. Ci sono elementi filosofici che rimandano al giusnaturalismo e alla personale ricerca nei boschi di Henry David Thoreau. È un’idea che torna spesso nella letteratura e nel cinema nordamericano: la società è feroce ed è meglio rifugiarsi nelle terre desolate che affrontare gli uomini
Affleck concentra nel suo primo vero esordio tutta la voglia di dimostrare il suo valore. Il mockumentary Io sono qui! era cannibalizzato da Joaquin Phoenix e dal suo finto passaggio dalla recitazione alla musica rap.
Con Light of My Life, l’ex fratello piccolo di Ben cerca di affermarsi ancora una volta. Non è bastato l’Oscar a dargli lo spazio che probabilmente merita. Ci sono state le accuse di molestie da parte di due ex collaboratrici che hanno bloccato la sua carriera. Questo film può essere letto come una specie di mea culpa: un grande atto di riconoscenza verso le donne, la cui assenza scaraventa il mondo maschile nella brutalità primordiale.
L’ansia di voler dire troppe cose e di doversi dimostrare all’altezza delle sue stesse aspettative porta Affleck a strafare. Light of My Life è frenato da un eccesso di dialoghi e da un’incompiutezza della sua tesi di fondo su chi davvero sia il salvatore nella dinamica tra padre e figlia.
(Light of My Life, di Casey Affleck, 2019, drammatico, 119’)
LA CRITICA
Casey Affleck esordisce alla regia con un film fortemente debitore nei confronti di The Road. Lo fa con consapevolezza e un po’ troppa ambizione, ma conferma tutte le sue doti di attore.
Comments