Un nuovo Dracula per un nuovo millennio?

Una riflessione (con spoiler) sulla nuova serie di BBC

di / 8 febbraio 2020

poster della serie Dracula disponibile su Netflix

Quando si sceglie di lavorare su Dracula, una delle figure più longeve e sfruttate della storia del cinema, non lo si può fare a cuor leggero: bisogna quantomeno darsi una certa autorevolezza, e sentire di avere qualcosa da aggiungere.

Questo almeno devono aver pensato Mark Gatiss e Steven Moffat, i creatori di Sherlock, nell’ideare il nuovo Dracula per BBC, disponibile su Netflix in Italia dal 4 gennaio. Che nella forma della miniserie, in pratica tre film da un’ora e mezza, hanno compiuto un’operazione a dir poco funambolica: portare in scena tre generi, tre estetiche e tre mondi narrativi diversi usando come base i personaggi e le vicende di un unico racconto, quello di Dracula, sbilanciandosi tra una fedeltà sorprendente e una rivisitazione totale del romanzo e di ogni sua trasposizione – tra cui di certo spicca la creazione del personaggio di suor Agatha, un corrispondente femminile di Abraham Van Helsing interpretato dalla splendida Dolly Wells, che, nel conservare il carattere, l’energia e l’acume del professore olandese, risulta contro ogni previsione riuscita.

Il primo episodio è un vero concentrato di orrore, un Dracula di una crudeltà che ormai neanche si sperava più di vedere: c’è il gusto per il sangue – rosso, denso, da film di qualche decennio fa – e per i mostri – i numerosi non-morti che infestano il castello del conte e che mettono a disagio sia dal punto visivo che da quello concettuale. Ma soprattutto c’è un’estetica infernale di gusto quasi medievale, come la memorabile scena del conte Dracula che esce dal corpo di un lupo davanti alle suore del convento di Budapest.

È anche un lungo omaggio alla storia del cinema, capace di rassicurare chiunque sull’amore e la buonafede dell’intera operazione: gli esterni sono stati girati nel castello di Orava, lo stesso che Murnau scelse per il suo Nosferatu nel 1922, e l’aspetto del conte, ogni fase del suo ringiovanimento mentre assorbe la vita dell’avvocato Harker, sono stati studiati nel dettaglio per rievocare ogni altro grande Dracula del Novecento, da Gary Oldman a Christopher Lee a Bela Lugosi.

Il secondo episodio si basa invece sulla vicenda sempre un po’ negletta della traversata in mare per l’Inghilterra della nave Demeter, che viene sfruttata per creare una sorta di gioco di scacchi, un Assassinio sull’Orient Express con Dracula come assassino e come deus ex machina. Dentro c’è tutto l’immaginario di Agatha Christie, l’ironia, le piccole crudeltà individuali nascoste dietro una facciata rispettabile, e un’eleganza in cui la figura del conte, nell’interpretazione seducente e profondamente malvagia di Claes Bang, emerge forse al suo meglio.

Quanto al terzo episodio, sembra un tentativo di doppia traslazione: tutta la parte britannica del Dracula originale, insieme ai suoi personaggi – Lucy Westenra, i suoi pretendenti, il folle Renfield – viene spostata non solo nella Londra contemporanea, ma anche nell’universo estetico e narrativo dello Sherlock di Benedict Cumberbatch: troviamo infatti una sorta di investigatrice, oscure società collocate in località più o meno segrete, e anche quel mondo della comunicazione digitale reso visibile, fluttuante sullo schermo, come parte integrante della realtà.

Si dice che a Gatiss e Moffat l’idea per un Dracula sia venuta proprio sul set di Sherlock: guardando Cumberbatch di spalle, con il bavero del cappotto nero alzato, scherzando hanno detto che sembrava il conte Dracula. E sarà stato forse per questo, per l’impossibilità di staccarsi da quell’immagine, o per un desiderio troppo profondo di tornare lì dove tutto era cominciato, che il terzo episodio è per certi versi un esperimento fallito: le numerose forzature narrative sembrano frutto del tentativo di accostare elementi che invece si respingono – come la scelta di far dormire il vampiro in acqua per più di cent’anni, o la presenza di Zoe Helsing, una fantomatica discendente della suora Agatha, che dall’inizio alla fine è invece l’unico vero punto focale del racconto – e impediscono soprattutto nella prima parte una qualunque sospensione di incredulità.

Non basta questo però a definire la serie mediocre in generale, come da più parti è stato detto.

È imperfetta, come lo sono a volte i grandi esperimenti: chi ricorda lo smarrimento e la sorpresa dati da uno dei migliori horror degli anni Dieci, American Horror Story, che di stagione in stagione usava gli stessi attori per rivitalizzare temi ormai diventati cliché, sa che certi tentativi sono più riusciti, altri decisamente meno, ma la grandezza delle intuizioni rimane indiscussa.

E sono proprio le intuizioni a rendere questo Dracula meritevole al di là delle sbavature. Perché le storie di vampiri hanno un senso e lasciano un’impronta sull’immaginario collettivo solo quando riescono a cogliere il sentire di un’epoca, a interpretare il suo rapporto con il male e con la morte.

Il Dracula di Claes Bang è crudele: crudele e indifferente alla crudeltà come lo era solo il conte di Bram Stoker, mentre porta via un neonato per darlo in pasto alle sue “spose” o quando sceglie le sue vittime per ciò che può assorbirne. È mostruoso ma attraente come lo è da sempre la via del male, in un modo quanto mai esplicito: l’effetto che ha sui passeggeri della Demeter è forse lo stesso che ha il Lestat di Anne Rice sulle sue vittime, se non che Lestat è molto più angelico di questa figura con le unghie come artigli.

Ha però anche una particolarità. Un po’ come un serial killer, vuole e non vuole essere compreso: respinge ed è attratto da chi prova a smascherarlo, perché dietro una malvagità satanica, quasi senza ombre, cela un’inquietudine molto contemporanea. Nello svelamento finale, in cui Zoe-Agatha mostra al conte che le sue paure – la luce del sole, le croci – sono solo superstizioni, lo mette di fronte a se stesso, alla propria miseria.  

«Direi che vi vergognate», gli dice, perché dietro la facciata perfetta e spietata Dracula è soprattutto un vigliacco. È un signore della guerra che da secoli manda gli altri sul campo di battaglia della vita e si tira indietro di fronte a ciò che è ineluttabile. È un vecchio che si nutre del sangue dei più giovani pur di non mollare la presa sulla vita – anche se si tratta di una vita solo a metà. Per questo non riesce a guardarsi allo specchio: perché lo mostra per quello che è. E per questo non riesce a guardare la croce: perché è il simbolo della scelta di morire per qualcun altro.

Rispetto alla deriva esistenzialista del Louis di Intervista col vampiro e alla malinconia dei vampiri annoiati di Solo gli amanti sopravvivono, per cui la vita eterna è una prigione nella quale ci si trascina senza trovare un senso, questo Dracula compie un passo avanti e pone la questione della non-morte nei termini nuovi del coraggio, della scelta della morte. Dracula non è imprigionato nella vita, ha solo troppa paura per accettare la morte.

In questo, la sua vera nemesi non è tanto Agatha, che con Dracula giocherebbe a scacchi per l’eternità solo per dimostrare di poterlo sconfiggere, quanto la giovane Lucy Westenra. Perché nella sua leggerezza, nel suo disprezzo per la vita non c’è tanto il credere incosciente dei giovani di poter vivere per sempre, ma piuttosto una consapevolezza profonda della propria finitezza e del mondo in cui vive, in cui «Tutti ti sorridono se sei bella», in cui solo l’apparenza ha valore.

Lucy che invita la morte e le sopravvive nella speranza di mantenere il proprio aspetto; che solo attraverso un selfie – lo stesso specchio che Dracula da sempre evita – scopre di essere invece condannata a un’eternità da mostro, e allora preferisce non essere affatto. Lucy è la vera figura tragica, e la più contemporanea, di questo Dracula, insieme a tutti i morti che invece non riescono a morire, i non-morti destinati a grattare per l’eternità il coperchio della propria bara e a supplicare di essere uccisi mentre vivono ogni momento della propria decomposizione.

Se ogni ritorno a Dracula è, più di ogni altro racconto dell’orrore, un nuovo tentativo di raccontare il perturbante e l’attrazione per la morte, quello della serie di BBC è denso di riflessioni e intuizioni, ma è soprattutto pieno di un amore profondo e di un vero desiderio di sperimentare, incurante di ogni intento commerciale.

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