Una meditazione su scrittura e morale
A proposito di “Madrigale senza suono” di Andrea Tarabbia
di Giovanni Bitetto / 18 febbraio 2020
A un anno dall’ultima lettura torno su Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri, 2019) di Andrea Tarabbia, un libro intriso di umori saturnini, che si regge su una costruzione dottissima, ma capace di esprimersi liberamente attraverso le fascinazioni gotiche. Romanzo altresì vincitore del Campiello, e direi a sorpresa, non tanto per il suo valore letterario – indubbiamente alto – ma per le ben note consuetudini della provincia culturale, che predilige di buon grado narrazioni dall’esito più edificante. Scrivo di Tarabbia non tanto per spendermi in tardive recensioni, ma perché mi sembra un buon caso per fare un discorso intorno alla letteratura e su cosa significa scrivere al giorno d’oggi.
Riprendiamo brevemente il succo del libro: si tratta della biografia di Gesualdo da Venosa, compositore vissuto fra Sedicesimo e Diciassettesimo secolo, celebre madrigalista, nonché artista ammantato dell’aura di “maledetto”, perché assassino della moglie e del di lei amante. I madrigali di Gesualdo sono tornati alla ribalta nel Novecento perché oggetto di studio e reinterpretazione da parte di Igo Stravinskij. Tarabbia immagina uno Stravinskij alle prese con lo studio di una biografia fittizia di Gesualdo, scritta dal suo fedele servo Gioachino, e intento a penetrare la figura misteriosa anche grazie allo scambio epistolare con il musicologo Glenn Watkins. Una struttura a più strati che oppone molteplici cornici razionali a un cuore – quello della vicenda di Gesualdo – animato dalla passione, dal tormento, dalla tragedia come unico esito di un destino in apparenza già tracciato.
Tarabbia non architetta una canonica storia di genio&follia, quanto una ben più cerebrale parabola sull’inconoscibilità del genio, ma anche sulla materialità del male, inteso come cozzare organico di corpi. Non ci sono solo i corpi dei due amanti, uniti sia nell’atto erotico che in quello violento che spezza la loro vita. C’è anche il corpo e lo sguardo servile di Gioachino, una sorta di coscienza infelice e parlante del suo padrone, e ancora il corpo deforme di Ignazio, il figlio di Gesualdo partorito la notte del delitto e segregato nella vergogna. Al romanzo delle passioni se ne sovrappone poi uno sul documento, una narrazione epistolare, concettosa e anch’essa inquietante, perché traccia il riverberarsi della follia di Gesualdo nella mente febbrile di Stravinskij.
A mio parere il lavoro di Tarabbia si situa nel panorama italiano a metà fra il magistero manierista di Tuena e le sfuriate misantropiche di Mari (impossibile, nel leggere la vicenda di Gesualdo, non lasciare che si sovrappongano i ricordi e le fascinazioni dell’esordio di Mari, Di bestia in bestia); c’è anche una spruzzata di Landolfi, non tanto nella lingua – mai troppo carica sebbene calibrata sulla pastosità letteraria che si richiede a un romanzo dal sapore storico – ma soprattutto nelle geometrie volte a costruire un congegno letterario perfetto, per poi negarlo. È un romanzo molto personale che si pone come bussola morale la volontà di sviscerare il dilemma dell’agire umano, fra consapevolezza della perfezione estetica – allo stesso modo perfetti esteticamente l’omicidio, i madrigali, e la parabola che oggi diremmo bohémienne di Gesualdo – e concretezza di sentimenti come rabbia e tormento, capaci di incidere su pensieri e comportamenti, a tal punto da arrecare danno al prossimo.
Abbiamo, dunque, un romanzo che si occupa di morale. E credo che al giorno d’oggi non si possa chiedere di meglio alla letteratura. Storie che migliorano la nostra frequentazione con noi stessi, ci facciamo riconnettere con il peso dei nostri giudizi e delle nostre azioni, per tornare ad ancora il soggetto deflagrato della modernità a una fragile linea etica di cui abbiamo più che mai bisogno. Storie che in definitiva mettono al centro l’uomo, non tanto perché animate da ipotesi narcisiste o impegnate a riabilitare una vetusta mitologia umanista, ma perché capaci di guardare al prisma umano – al sinolo di magnificenza e decadenza del nostro animo – con spirito giudicante: siamo condannati a percepire noi stessi, tanto vale soppesare la nostra coscienza, calibrare il motore da cui si irradia la nostra natura di soggetti, e di soggetti in rapporto dialettico con il mondo esterno.
Fra tanti tentativi massimalisti che cercano di assorbire sul piano estetico una totalità che sfugge – chi cercando di riabilitare artificialmente un discorso pubblico atomizzato e che vede la letteratura in posizione ancillare, chi rapportandosi alle nuove sfide della contemporaneità ma perdendo, a volte in maniera anche comica, il senso della trasfigurazione letteraria – un episodio così ben calibrato, in grado di riflettere sull’orizzonte morale dell’uomo, è oro colato. Nonché la strada che ci sentiamo di sposare e seguire.
(Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono, Bollati Boringhieri, 2019, 377 pp., euro 16,50, articolo di Giovanni Bitetto)
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