La riscrittura del proprio copione ma dal punto di vista degli altri

“L’esercizio”, romanzo d’esordio di Claudia Petrucci

di / 26 maggio 2020

Copertina di L'esercizio di Claudia Petrucci

Un esordio di spessore che riapre l’interrogativo su un quesito antico: la sovrapposizione tra la persona e il personaggio, su chi siamo, chi raccontiamo di essere, come ci raccontano gli altri. Claudia Petrucci, con L’esercizio (La Nave di Teseo, 2020), ci invita appunto a “esercitarci” sugli schemi identitari che ci definiscono sin dall’infanzia e la narrazione che facciamo della nostra esistenza in modo quasi itinerante.

«Se non fosse successo quel che è successo, lei sarebbe ancora lì, io potrei tornare a nascondermi in ciò che credevo di conoscere, che era tutto ciò che conoscevo: un istante uguale in eterno. Irripetibile, irriproducibile».

La prima parte del romanzo è un corposo antefatto che scatta una fotografia sulla trama che si dipanerà, in uno stile asciutto e al contempo dettagliato. Un ruolo centrale lo svolgono non tanto gli eventi quanto i ricordi che abbiamo di essi – inquadrando la memoria come costruzione – e le relazioni con gli altri che non si capisce se stiano leggendo la storia che desideriamo che leggano, nascondendo anche delle parti fondanti della stessa.

Giorgia, Filippo e Mauro sono i protagonisti di questo romanzo: un triangolo strano, squilibrato verso la vera figura dominante della triade, Giorgia, una ragazza che vive un rapporto instabile, sia con se stessa che nella coppia, con Filippo e che quando rincontra Mauro, il suo insegnante di recitazione, si rituffa nell’ambizioso richiamo del palcoscenico.

A raccontare la storia è Filippo, il fidanzato trentenne e disilluso, che in una prima persona diretta e inquieta, a tratti pervasa di sensi di colpa e intrisa di grande sensibilità, ricostruisce la vicenda della sua fidanzata, dal passato infelice come rivelerà la zia di lei, scoprendo un evento tenuto nascosto, colpita poi da una malattia nervosa, già presente sin dall’adolescenza. Giorgia ricorda la donna di Solaris di Stanisław Lem, Harey, che è insieme amata, idealizzata ma anche in continuo mutamento, dotata di una personalità confusa e misteriosa. Giorgia va in pezzi quando decide di tornare a recitare, studiare e mettere in scena i suoi personaggi: viene ricoverata nel suo delirio tra finzione e realtà e saranno Filippo e Mauro, avversari e al contempo alleati, a pianificare un copione su misura per riportarla fuori dalla clinica. Quindici giorni di stesura per ridare una nuova identità alla donna che li unisce, stesa nel letto di una clinica, in una fase di transizione.

«L’impianto teatrale dello psicodramma vede il paziente portare sulla scena la propria difficoltà esistenziale. Non è molto diversa dallo schema cui Giorgia è abituata: solo che nel percorso terapeutico il regista sceglie la scena da rappresentare», spiegherà il primario della clinica a Mauro che si metterà a riscrivere il plot. Insieme a Filippo. «Abbiamo creato insieme la schiera di comparse, una descrizione breve e fitta di nomi organizzati sullo sfondo, poi i personaggi coinvolti nell’azione: i miei genitori, Amelia, lui stesso, io sono stato l’ultimo a essere inserito: Mauro mi ha definito un co-protagonista».

Il lettore viene trascinato in una domanda insistente: immaginare cosa sarebbe stato di sé, se qualcuno avesse spostato l’ordine degli eventi, se una mano avesse teso gli strumenti diversi, variabili differenti. Ci si chiede quanto conti la prima impressione nello scoccare di certe interazioni: valutazioni istintuali del linguaggio non verbale, archetipi ai quali attingiamo inconsapevolmente, credendo di conoscere il carattere e la storia degli altri.

E quando qualcuno ci parla di una storia di cui ci sentiamo protagonisti il gioco è fatto: ci crediamo.  Il caos che vivono Giorgia e Filippo nel loro rapporto di coppia è dato dal fatto che le loro narrazioni non coincidono più, i loro schemi narrativi piuttosto che modellarsi alla nuova trama, divengono più duri e schematici. L’Esercizio già nel titolo dovrebbe suggerire questa ambivalenza: smaltire i ricordi e le costruzioni e esercitarsi appunto a riscriversi, ma l’autrice si chiede se possiamo essere davvero capaci di farlo. E tra la clinica, i copioni da riscrivere e studiare, le fasi di Giorgia, che talvolta accetta, rare volte rifiuta “la parte”, il romanzo si snoda sulla curiosità di una protagonista che alla fine potrebbe tornare a vivere, a “essere come prima”.

«Riprendo due vite parallele, quella di superficie e quella solo mia, invisibile e profonda, in cui ricomincio a smaltire i ricordi. Stavolta non sono impreparato e inizio il mio esercizio con disinvoltura. […] Più sono esposto alla Giorgia del presente, più fantastico su quella del futuro e, al ritorno, aumento il volume dei miei appunti», dirà Filippo pensando a tutto quello che la nuova Giorgia avrebbe potuto essere e non è stata.

Il potere della narrazione si muove su più piani, attraverso la triade scomposta dei personaggi, ma resta certo che il concetto di identità e il fraintendere i suoi significati domina tutto il romanzo. E come la stessa autrice ha dichiarato: «La capacità che crediamo di possedere, di definire noi stessi, di riconoscermi in uno specchio, mi aveva impedito di considerare una visione più ampia».

L’autrice parte da una storia d’amore spenta, per addentrarsi in un’indagine che ricorda quella di Erving Goffman in La vita quotidiana come rappresentazione, uno studio interazionista della vita di ogni giorno, usando come metafora appunto il teatro, la passione di Giorgia.

Il romanzo è quindi introspettivo, sociologico e coinvolgente: rilancia l’idea della riscrittura del sé e quindi della ricerca del sé.

(Claudia Petrucci, L’esercizio, La Nave di Teseo, 2020, pp. 333, euro 18, articolo di Antonella De Biasi)

 

  • condividi:

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio