L’età magica del limbo

“Mezza luce mezzo buio, quasi adulti” di Carlo Bertocchi

di / 10 giugno 2020

Mezza luce mezzo buio quasi adulti di Bertocchi

Ci sono poche cose incontrovertibili che si possono dire sul conto di qualcuno. Perché nel nostro gorgo di specchi deformanti, ogni contorno ricalca già la sua smentita. Ma nel mio secchiello di verità intatte, troneggia un assioma.
E cioè, c’è poco da fare, che sono una figlia degli anni Ottanta. E non solo per motivi di decade, ma per innata propensione verso ciò che hanno prodotto.
Qui potrebbe squarciarsi un emisfero. Di assennati detrattori del periodo indicato.

Perché? Perché sì, è ovvio. Infinite volte. Per l’euforia socio-economica ostentata come un capo alla moda; per la moda stessa, tracotante, posticcia, sguaiata, plastificata e contaminante. Per l’illusione che la “vacanza occidentale” non prevedesse limite, che il mondo fosse un vassoio da cui asportare il capriccio del giorno. Per la catechesi a marchio Fininvest, che ancora oggi semina detriti.

Tutto esatto, almeno senza pretese di approfondire. E io concordo. E apprezzo. La sopraggiunta (e tardiva) presa di coscienza ambientale, il declino imperiale della lacca spacca-ozono, la scomparsa documentata del paninaro, dei parrucchini in puro pelo di castoro e delle imperdonabili pennette alla vodka.
Leggo per sopravvivere e mi nutro di sofisticazioni.

Però, quando m’imbatto in Kiss me Licia, nel plotone di cianfrusaglie dell’ovetto Kinder, in ET o in Daniel San (e potremmo avventurarci ancora più nel becero), per non parlare del carnevale iridescente della musica elettronica, come dire, io sono io. Una bambina affamata di piccolezze. E pronta a raschiarle come fossero perle.

Per cui, incontrando il romanzo Mezza luce mezzo buio, quasi adulti di Carlo Bertocchi (Terrarossa Edizioni, 2019) era difficile deporre le mie bisacce malinconiche. Per di più perché si tratta di adolescenza. Che è sempre tremendamente così dura a morire. Nel tabernacolo di qualunque età.

Siamo dentro l’estate romagnola del 1989, prima del Muro caduto e di un intero arcipelago di troppi altri crolli. Bert si accinge a breve a frequentare il primo anno di liceo, ma sembra che gli importi di più delle nuvole. Il suo universo si condensa in un nucleo di amici, sfide in sala giochi, scorribande in motorino e Matilda, un angelo lentigginoso e alquanto scorbutico. Praticamente un Eden con sottofondo di Lambrusco.

Dovrebbe preoccuparsi della cricca di bulli che gli orbita intorno, uno dei quali è logicamente accoppiato con Matilda, delle duemila lire per un “tutto stracciatella”, delle fughe mattutine da casa per sfuggire ai rimproveri materni.

Ma non può bastare per condire l’ultima stagione da ragazzini. Come profila già il titolo, per un’iniziazione che si rispetti serve un fosso. Un solco infuocato da attraversare. E il rito di passaggio lo aspetta ansimante; si annida nel volto di un albanese, accusato di omicidio e rintanato in un astuccio di tubi tra i campi di granturco. Bert ci si imbatte per caso, così come avvengono le folgorazioni e lì, nel terrore castano di quegli occhi, spetta a lui decidere se far prevalere la paura o l’incoscienza. E poi cominciare a definirla “coraggio”.

Anche perché per lui non può esserci occasione migliore per solleticare il campionario dei suoi mostri, riscattarsi dall’aura di bambinotto al guinzaglio materno, fare colpo sulla sua bella e sdoganarsi (per sempre?) dall’ingombrante infanzia. Capendo che la realtà è più spessa e profonda di un articolo in prima pagina, che basta spingersi al di là del proprio palmo perché la terra ti minacci i piedi e ti costringa a smacchiare per bene il bucato di certezze.

Inevitabile pensare a Enrico Brizzi, Raul Montanari o Niccolò Ammaniti, alla biosfera di microtormenti esistenziali schiantati di colpo con lo sbarco in età adulta. Al confronto tra pari che si erge a tribunale e unità di misura del proprio stare al mondo.

E soprattutto, intenerisce il ritratto di quell’Italia così ancora beatamente analogica, in cui i ragazzini crescevano tra polvere e sudore, infangavano magliette, anelavano un gelato e paventavano con tremito lo sguardo infuriato del padre o il fantascientifico inesorabile ceffone. Perché assieme ai dinosauri, alle mezze stagioni e all’ecosistema delle Maldive o di Venezia, altra suprema estinzione è quella dell’autorità genitoriale. E gli anni Ottanta ogni tanto sgambettano da un’alcova in poliuretano, a ricordarci cos’era ancora possibile. Poi certo, resiste tanto altro di invariato: l’ignoranza cialtrona, la bestia nera della droga e l’immortale caccia allo straniero.

Ma Mezza luce mezzo buio, quasi adulti è una favola per adolescenti speranzosi o per grandi nostalgici, lontana da svisceranti scavi psicologici e garbugli di trama. E il lieto fine è compreso nel prezzo del viaggio a ritroso. Vicenda esile e gentile, volutamente ingenua, pronta ad essere sbranata in due ore di libertà leggera. Creatura della scuderia di una casa editrice giovane e determinata nella sua missione: pubblicare storie scelte con cura e presentate con passione, amando i dettagli che ne scandiscono il peso.

Deliziosa la copertina illustrata da Francesco Dezio; delizioso pensare di avere quattordici anni e una tv con l’antenna e definire amici solo quelli con cui ti sbucci le ginocchia. E non aver bisogno di cento foto al giorno per ricordare quello di cui un giorno potresti anche scrivere. Ora è chiaro, sono ufficialmente anziana.

 

(Carlo Bertocchi, Mezza luce mezzo buio, quasi adulti, TerraRossa Edizioni, 2019, 170 pp., euro 15,50, articolo di Cristiana Saporito)

 

 

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