« Il vento se ti sceglie non ti abbandona, in questa stagione che fa dilatare il ferro»

Una conversazione partendo dai romanzi “La botanica delle bugie” e “Le isole di Norman”

di / 8 settembre 2020

copertina Le isole di Norman

Questa conversazione tra Elisa Casseri e Veronica Galletta nasce in modo molto semplice, perché semplicemente abbiamo dato loro carta bianca. Entrambe laureate in Ingegneria, entrambe scrittrici – la prima ha pubblicato lo scorso anno La botanica delle bugie (Fandango, 2019); la seconda ha esordito la scorsa primavera con Le isole di Norman (Italo Svevo, 2020) ed è fresca vincitrice del Premio Campiello Opera Prima –, si muovono liberamente tra un libro e l’altro, tra poesie e nozioni d’idraulica. Confidiamo che possiate amarla come l’abbiamo amata noi.

 

 

Elisa Casseri e Veronica Galletta: Dovremmo fare un’introduzione, che forse è una post-fazione, anche se l’abbiamo scritta quando eravamo a metà di questo scambio che segue. Ci hanno chiesto di parlare e abbiamo parlato: volevamo seguire delle regole, ma non lo abbiamo fatto perché in realtà non volevamo seguire delle regole, ce lo siamo dette solo per calmierare le nostre nevrosi.
E per il titolo?
Per il titolo facciamo così: Il vento se ti sceglie non ti abbandona, in questa stagione che fa dilatare il ferro.
Sottotitolo: “Caterina e la gallina”.

  

VG: Cara Elisa, pensavo di avere un vantaggio rispetto a te, e cioè che io il tuo La botanica delle bugie (Fandango, 2019) lo avevo già letto e ne avevamo già parlato in una presentazione pubblica, in un novembre del 2019 che con in mezzo il Covid sembra di un tempo dilatato (ricorda questo aggettivo, tornerà) fa.
Così ho ripreso gli appunti che avevo preso, e poi mi sono rimessa a leggere il libro, trovando molte idee e spunti. Però no, troppo impostata come cosa. Voglio giocare con te al buio, partendo da un appunto di cui non ricordo la collocazione, e che ho scelto allora di non cercare. L’appunto dice: «Immaginario: nonna Maria: come si rubano le galline». Vorrei partire da qui, se ti va, ricordando che nonna Maria è la nonna paterna di Nicla, una dei quattro (o forse solo tre?) protagonisti del romanzo, e che in quel “paterna” c’è un altro nucleo del romanzo.
La domanda allora è: Come si rubano le galline secondo nonna Maria?

 

EC: Cara Veronica,
davanti al mio tavolo ho questa bacheca di finto sughero con attaccate sopra mille cose diverse. Una è un foglietto bianco che dice:

«Il mio tempo è stretto
come una matita
Più dei fili elettrici
a zampe di uccelli».

È una poesia di Fabrizia Ramondino, ma ora che mi scrivi sembra un indizio, un cartello, un pezzo di una mappa che ha a che fare con il nostro incontro a Livorno, con quel tempo che è stato (dilatato, eh) e pure con le galline di nonna Maria – è colpa tua, questo: da quando ho letto Le isole di Norman vedo ovunque cartine, mappature, battaglie navali.
Comunque, se davvero vuoi rubare una gallina, ecco che devi fare. Mettiti una gonna lunga, prendi un chicco di mais e un rocchetto di filo (di cotone, non elettrico). Con un ago infilza il chicco e facci passare dentro il filo. A quel punto, trova la gallina e lanciale il chicco. Quando lei lo becca, aspetta qualche secondo, falla deglutire e poi tirala verso di te, fino a sotto la gonna. Una volta che ce l’hai lì, nascosta, camminate insieme verso di me, che vi sto aspettando per chiedervi un paio di cose.
Come sai, il mio libro inizia con una gallina a cui la madre di Nicla cerca di tagliare il collo e poi succede tutto un casino per cui Nicla si innamora, chiedendosi (se lo chiede per quasi tutta la vita) se quella è la sua prima bugia. E allora io mi chiedo e ti chiedo (vi chiedo a te e alla gallina), da questo tempo post-lockdown – un tempo strettissimo – qual è il rapporto tra una pentola di acqua bollente (fine triste della gallina di Nicla, inizio doloroso della vita della protagonista del tuo libro, Elena) e l’amore.

 

VG: Cara Elisa,
ti rispondo anche io a partire da una poesia, anch’essa attaccata alla mia bacheca di finto sughero accanto alla scrivania. Lei è Emily Dickinson, e dice:

«Dopo un grande dolore
viene un sentimento formale-
i nervi, siedono cerimoniosi come tombe-
il cuore irrigidito si chiede
se proprio lui ha sopportato,
e se fu ieri, o secoli fa».

Ecco, credo che l’amore che sta dentro una pentola di acqua bollente sia così, un amore cauto, all’erta, di chi pensava di essere morto e invece è sopravvissuto. Questo è il sentimento che corre dentro la bambina, che arriva fino a Elena grande, quando deve confrontarsi con il mondo, questo il filo (forse elettrico, e non di cotone) che segue quando si mette alla ricerca della madre e del suo passato in giro per l’Isola. E anche io voglio seguire questo filo, che mi riporta di nuovo alla gallina, questa volta mia, e non tua. La gallina che la bambina immagina che svolazzi per la macchina mentre i genitori la riportano a casa, la gallina la cui piuma (o penna?) viene usata per spennellarla di medicina rovente dalla Signora che la cura.
La Signora, il cui nome è Caterina, anche se poi nel romanzo non compare, l’ho tolto (ho dovuto aprire il pdf del romanzo per verificare, come già ti ho detto le parole non mi appartengono, mi attraversano), e mi è parsa una coincidenza singolare, Caterina come una delle protagoniste di La botanica delle bugie, lei, proprio lei, che indossa sempre vestiti troppo stretti, li strizza fino a marchiarseli addosso come timbri, e poi ecco mi è tornata Elena, che i vestiti li ha avuti marchiati addosso per sempre dall’acqua bollente.
Eppure mi torna ancora Caterina, che è il personaggio della tua storia per il quale provo più compassione, nonostante non mi ci identifichi (io sono Nicla, è evidente), nonostante faccia delle cose orrende, quasi imperdonabili (mi viene in mente l’episodio della canottiera di lana). Allora ti chiedo, è giusto? È corretto provare pietas per chi ferisce e attacca? O è solo la maledetta sindrome di Stoccolma?
E chi è Caterina?

 

EC: Cara Veronica,
c’è sempre un dolore prima di un altro dolore e prima di quell’altro dolore c’è sempre un altro dolore ancora. O almeno credo. Quando penso alla compassione, mi sembra sempre di avere a che fare con una funzione a più variabili, dove ci sono ferite, morsi, piume di gallina e canottiere di lana, e io non ne so capire il dominio, non ne riesco a calcolare le derivate, non ne visualizzo le convessità. A malapena intravedo gli assi su cui si gioca la partita, quindi prendo sempre una posizione sghemba, che molte volte non comprendo appieno.
Formalmente non so quanto questo abbia a che fare con Caterina. Quello che so è che quando ho iniziato a scrivereLa botanica delle bugie, mi ero detta che avrei avuto due voci: una con l’io e una con il tu. Mi ero detta che tutte le storie d’amore sono fatte di un io e di un tu e che volevo che quelle narrazioni dicessero qualcosa di profondo sui personaggi che raccontavano – che diventassero autonarrazioni, insomma. Nicla è un tu, pensa a se stessa con il tu, si sputa in faccia le sue mancanze come se fossero l’unica cosa di cui è fatta. Quirino è un io, pensa con l’io, agisce con l’io, ruota tutto intorno a se stesso. Ho scritto i primi due capitoli e poi ho sentito che non bastava, che per quel dolore mi servivano altre variabili e così è arrivata Caterina, che pensa in terza persona ed è la terza persona e si autonarra distaccandosi da se stessa come se le parole «non le appartenessero, ma la attraversassero». Ecco, forse è per questo che provi compassione per lei, perché hai appena saputo descriverla senza immaginare che lo stessi facendo.
Mi chiedo se è così che funziona sempre la scrittura. Una volta mi hai detto, anzi mi hai scritto, che le nostre forme (le tue mappe, la mia melotecnica) sono «letture creative della realtà» e allora io mi chiedo se è per questo che tendiamo a cavalcare sulle forme e sui tempi, a mescolarli, a sopportare che ci dicano che siamo complesse e che lo facciano usando una semplificazione. Secondo te, può essere che la scrittura sia quel sentimento formale che dice la Dickinson ma anche quel tempo stretto che dice la Ramondino? Secondo te, possiamo fare una fluidodinamica dell’acqua che bolle nella pentola? Le isole di Norman sono la pelle che si è salvata oppure sono le bruciature?

P.S. Dove vedi le virgolette, sono citazioni tue, lo sottolineo per cercare di tenerti attaccata alle parole. Ti sembra una prepotenza?

 

Elisa Casseri

 

VG: Elisa,
ogni tua risposta mi sposta di un poco, mi muove l’asse attorno a cui ruoto, che io immagino sempre così inamovibile, e invece.
Allora sì, forse la mia pietas per Caterina deriva dalla sua terza persona. Io scrivo solo in terza persona, sai? Le mie prove in prima sono sempre brevi, faticose, spezzettate. Finiscono per diventare dei comizi, come se i miei personaggi in prima persona, sentissero addosso il peso di dover dire qualcosa di importante, di istruire, di rassicurare, e la scrittura mi si irrigidisce, perde fluidità. Così ho rinunciato, e scrivo solo in terza. Mi accomodo in una terza persona, come Caterina, dentro la quale mi nascondo e mi reinvento, e solo in quel modo riesco a dire la verità. Solo mentendo, e facendomi attraversare dalle parole, posso dire veramente.
La scrittura allora forse parte da un sentimento formale e si affina in un tempo stretto. Il sentimento formale le serve da innesco e il tempo stretto la distilla, permette di darle una forma, delle condizioni al contorno all’interno delle quali muoversi più liberamente, o almeno tentare. Per anni ho studiato fenomeni perturbativi in domini a contorno variabile, ma riformulo, perché è più semplice di così: studiavo come nascono le forme di sabbia nel mare. A volte in laboratorio mi bastava immergere un indice in vasca, dare un colpetto e il meccanismo partiva, formando le piccole dune, e io le analizzavo, giorno dopo giorno, chiedendomi cosa me ne sarei fatta: mi angosciava l’idea che fosse tutto lì. Ecco, oggi forse ci scrivo: innesco con un sentimento formale, raccolgo i dati, li elaboro in un tempo stretto, misurandomi sul contorno variabile della forma romanzo, che sempre mi sfugge.
Allora Le isole di Norman sono sia la pelle che rimane che quella che è andata via, sono la discontinuità callosa fra il cheloide e la carne morbida, che sfiorando con la mano ti ricordano che qualcosa è accaduto, anche se non ricordi cosa. Elena non sa cosa ricordare dell’incidente, e noi? Noi quante cose non sappiamo ricordare? Quanti ricordi abbiamo deformato, o ci sfuggono, in un dominio dai contorni variabili? Forse Le isole di Norman in qualche modo desidera accoglierli tutti, abbracciare tutte le versioni di uno stesso ricordo, rendendole tutte vere.
Certo, questa è una lettura creativa della realtà, come ti avevo scritto, ma no: mi rimangio il creativo: è una lettura della realtà, l’unica possibile per ognuno di noi, ognuno la sua, quella stessa che ti fa scrivere in La botanica delle bugie «questa è una stagione che fa dilatare il ferro» (ricordi? te l’avevo detto che sarei tornata su “dilatato”). Ecco, io trovo questa commistione di scienze applicate e scrittura davvero poetica, e ti chiedo allora adesso una parola o un’espressione che mutuata dalla scienza, dalla tua scienza, è per te portatrice di senso nuovo dentro la tua scrittura. Dimmene una, e io poi te ne dico una mia.

P.S. Fai bene a tenermi attaccata alle parole, io a volte le abbraccio senza chiedere loro nulla, ma dovrei citare Pedro Salinas e no, non voglio diventare melò.

 

Galletta

 

EC: Veronica mia,
come prima cosa ti prego di citare Salinas e di diventare melò, non si può studiare come nascono le forme di sabbia nel mare e non concedersi di diventarlo, almeno un pochino, almeno ogni tanto. Nel frattempo io, dal fondo sabbioso, mi spingo verso l’alto, alla ricerca di quella «discontinuità callosa fra il cheloide e la carne morbida» che dici, per poterti rispondere (ti ho rivirgolettato, che impertinente).
Mi è tornato in mente che, mentre facevamo la correzione di bozze di Teoria idraulica delle famiglie, mi hanno chiesto di togliere l’espressione «a pelo libero» perché era troppo difficile, le persone non la conoscevano e avrebbe fatto staccare l’attenzione dalla frase che la conteneva. La redattrice mi ha detto: «Guarda» e ha chiesto l’attenzione di tutta la redazione: «Chi sa cosa vuol dire a pelo libero?». Ho alzato la mano solo io e quindi, forse per l’imbarazzo in cui quella condizione di estrema minoranza mi aveva messo, ho deciso di toglierla.
Te lo racconto perché credo che quell’espressione abbia profondamente a che fare con quello che mi chiedi. Il pelo libero è una superficie di separazione (e di contatto) tra due diverse sostanze e tra due diversi stadi fisici: forse è lì che sto quando cerco di tracciare le linee della mia scrittura.
Credo sia per questo che le valvole di ritegno e le micorrize fanno nascere le mie storie; sempre per questo la teoria dei giochi, i buchi neri e il polo dell’inaccessibilità mi gettano tra le braccia della drammaturgia; ancora per questo prendo gli elementi della tavola periodica e li rendo un alfabeto per poter parlare di musica, chimica e letteratura quando scrivo Melotecnica, la mia bizzarra rubrica su Nuovi Argomenti.
Mi fa ridere che continuiamo a stare sempre in mezzo all’acqua io e te, tra isole e correnti inquiete, a metaforizzare e a parafrasare ma, mentre mi metto in attesa della citazione da Salinas e della tua espressione «mutuata dalla scienza» (ti virgoletterò per sempre), mi chiedo e ti chiedo (e vi chiedo a te, alla gallina e a Caterina) se per piacere possiamo chiamare per sempre «fenomeni perturbativi in domini a contorno variabile» le diverse forme che riesce ad assumere la scrittura.
Mi renderebbe davvero molto felice.

 

VG: Elisa, intanto prima di tutto la prossima volta chiama me, e così magari ci penso io a spiegare loro la bellezza e la perfezione della corrente a pelo libero nell’idraulica fluviale, che passa da lenta a veloce quando serve che attraversi un ostacolo, e poi si fa nuovamente lenta, mentre tu la osservi nelle notti di piena (d’acqua, non di luna) aspettando che passi.
E poi questa tua cosa mi fa venire in mente un passo di Le isole di Norman in cui ho scritto: «Fra poco le sbarre del carcere cominceranno a vibrare, a lamentarsi in modo ossessivo e sinistro. Prima o poi entreranno in risonanza, e la loro piccola oscillazione diventerà un enorme movimento, un’onda di sbarre, che le scardinerà dai loro plinti e le farà volare libere, come uno stormo in migrazione», (guarda che sfacciata, mi autovirgoletto). Mi fa venire in mente che per spiegare cosa volevo dire ho mandato all’editor il video del crollo del ponte Tacoma, nel 1940.
Per il resto, come parola totemica per questa nostra conversazione, io scelgo la parola stramazzo, che descrive quel fenomeno per cui l’acqua scivola via da una superficie ma non si perde, assume una forma sinuosa e compatta. Una parola a cui penso spesso per la scrittura, quell’equilibrio che cerco sempre fra l’esondare senza limiti e mantenere una forma elegante, comunque descrivibile matematicamente.
Ecco, ora basta metaforizzare e parafrasare, e in chiusura voglio chiederti un’ultima cosa. Tralascio le mappe, non si meritano un blando trafiletto come una rapina in cronaca locale, per quelle faremo una tre giorni. Invece ti voglio raccontare che in questi giorni sto rileggendo La zia Julia e lo scribacchino, di Vargas Llosa. È un libro che rileggo quando ho la testa troppo piena: seguo Pedro Camacho, rido, e mi scordo tutto. E allora mi viene in mente che quando stava per uscire Le isole di Norman, molti mi hanno detto: chissà come sarà divertente, sei sempre così divertente su Facebook, e io non sapevo come dirlo, che di divertente non c’era niente dentro Le isole di Norman, e così non lo dicevo, e intanto mi sentivo in colpa. Vargas Llosa ha scritto Pedro Camacho per me, mi dicevo, per tirarmi su di morale, e io non so fare una cosa così per gli altri. E allora penso al tuo blog Memorie di una bevitrice di Estathè, al suo tono che trovo così diverso dal tuo scrivere. E mi/ti chiedo (rispondano anche Caterina e la gallina, se desiderano): Perché? È una scelta la tua? O solo una incapacità, come la mia?

P.S. Pedro Salinas in chiusura, a suggello di una conversazione che ridefinirà i termini della parola melò. Una sorta di epitaffio, mettiamola così.

 

EC: Cara Veronica,
forse delle mappe non possiamo veramente parlare, le possiamo solo fare, guardare, usare, ripiegare male. Però, ti voglio dire che io quella tua citazione me la ricordo, sta in «N4, Il molo», il penultimo capitolo del libro. E ti voglio anche dire che, in «NN, fuori mappa», quando Elena dice tutto d’un fiato che cos’è la pietra che porta in tasca, come si forma e in che modo la velocità di raffreddamento non permette agli atomi di ordinarsi e la persona che è con lei le risponde «È come te, allora. Anche i tuoi atomi non hanno il tempo di ordinarsi», io ho riso.
C’è sempre qualcosa di divertente dove non c’è niente di divertente perché la scrittura riesce a essere seria solo quando non si prende sul serio, per questo è bello concedersi tutte le voci possibili, autodenunciare la propria dozzinale dipendenza da un tè chimico davvero poco sexy o raccontare di quella volta (questa sei tu) che si aveva accanto Edmund White e gli si è raccontato delle preoccupazioni per l’orario di uscita di Ettore dall’asilo e del ritardo dei treni, prima di sapere che era Edmund White. A me sembra che siano le storie che voglio raccontare a suggerirmi voce e forma e allora io questo faccio, le ascolto, perché «il vento, se ti sceglie, non ti abbandona».
Visto che abbiamo iniziato questa conversazione selvaggia con te che ricordi di quando, a novembre dell’anno scorso, abbiamo parlato di La botanica delle bugie a Livorno (città dove l’Estathè si trova dappertutto, diciamolo), la voglio chiudere con il momento in cui ho capito che eri entrata nella mia personale mappatura emotiva.
«Elisa, però», mi hai detto, «sono costretta a farti presente che questo libro ha un grosso problema: mentre la prima, la seconda e la quarta parte sono di 71 pagine, la terza è di 74. Visto che 71 è un numero primo e 74 no, vediamo di risolvere».

 

VG: Ahahahahah. Grazie Elisa, è tutto il carteggio che cerco il modo di chiederti, seppur con eleganza, come giusto stramazzo, se poi tu avessi pensato di mettere a posto questa cosa del 71-71-74-71 che mi disturbava molto, lo confesso.
Per ringraziarti, allora, ecco Pedro Salinas

«E sto abbracciato a te
senza chiederti nulla, per timore
che non sia vero
che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te
senza guardare e senza toccarti.
Non debba mai scoprire
con domande, con carezze,
quella solitudine immensa
d’amarti solo io».

 

(Elisa Casseri, La botanica delle bugie, Fandango, 2019, pp. 304, euro 18 | Veronica Galletta, Le isole di Norman, Italo Svevo, 2020, pp. 304, euro 18)
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