Il giocattolo complicato e imperfetto che ci salva

Su “Tenet” di Christopher Nolan

di / 11 settembre 2020

Poster italiano di Tenet

L’ultimo film di Christopher Nolan è più di un film: il COVID ha trasformato Tenet in un’idea circondata da un contesto ineludibile, il totem liberatorio che ci avrebbe riportati al cinema, la catarsi. Ora, senza perdersi nei meandri degli incassi e dei botteghini, bisogna dire che l’operazione è riuscita, e più avanti cercheremo di capire perché. Tuttavia, ci spetta adesso il difficile compito di scindere il testo dal contesto, e di dire due parole sull’opera in sé.

Tenet è il più nolaniano dei film di Nolan, e lo è nel bene e nel male: può essere definito come la summa cinematografica dell’autore più hollywoodiano che ci sia in circolazione, un regista che ha saputo negli anni innestare una meditazione ed una poetica personali all’interno del sistema dei blockbuster mainstream.

Il vaso di Nolan è pieno di idee che sono sempre le stesse, ma questo non è necessariamente un male: potrebbe essere solo la sua visione, la sua cifra, la sua idea di cinema. Il punto nodale è che con Tenet, e forse deliberatamente, il vaso trabocca.

Il film inizia – metaforicamente – con un’orchestra che accorda gli strumenti. Un attimo di silenzio dopo aver trovato il (presunto) la, e si parte per non fermarsi fino alla fine, quando si esce dalla sala disorientati, certamente ammirati ma anche indispettiti.

Lo scheletro della trama, come spesso accade in Nolan, è in realtà molto semplice: ci troviamo calati in un’atmosfera à la James Bond, con le sue spie e controspie, con la sua guerra fredda sullo sfondo e la sua missione per salvare il mondo. Ci sono un agente dei servizi segreti (John David Washington, figlio di Denzel), un villain – ovviamente russo – assetato di potere e di controllo (uno scespiriano Kenneth Branagh che convince ma a volte calca un po’ troppo la mano), una dama algida e vendicativa (una Elizabeth Debicki che ricorda le bionde di Hitchcock più che le bond-girl) che fa da trait d’union tra le varie linee della storia.

A questo punto avviene la nolanizzazione del prodotto: esattamente come accadeva in Dunkirk (2017) per il cinema di guerra, Nolan innesta le sue cifre stilistiche e contenutistiche su di un genere cinematografico già consolidato. Il risultato è ambiguo, poiché se da un lato si può apprezzare il tentativo di innovare “dall’interno” un genere classico, dall’altro l’esperimento non riesce del tutto, nella misura in cui sul film si deposita uno strato di freddezza, distanza e artificiosità che mina l’emotività della fruizione. Ecco che, come Dunkirk cessava di essere un film sulla seconda guerra mondiale per diventare un film sul tempo, così Tenet cessa di essere un film di spie per diventare un altro, l’ennesimo, film sul tempo.

Il paragone con Dunkirk è il primo per cronologia e per ispirazione di fondo, ma il contenuto di Tenet (ed eventualmente il suo messaggio finale) paiono molto più vicini ad altri due film di Nolan, quelli centrali, Inception (2010) e Interstellar (2014). Questi ultimi film nelle intenzioni del regista dovrebbero confluire in Tenet, unendosi per costituirne la struttura. Ecco perché abbiamo una spy story complicata dalla guerra che le fa da sfondo, che non è per la supremazia nucleare ma per quella temporale; ed ecco perché abbiamo la storia di una donna, moglie che non ama suo marito e madre che sopra ogni cosa ama suo figlio. Sono quelle che abbiamo imparato a riconoscere come le ossessioni di Nolan: da un lato, l’assurgere della cerebralità a contenuto e intrattenimento di per sé, sotto la forma del problema del tempo, della prospettiva e del punto di vista; dall’altro, in maniera squisitamente semplice – e spesso ruffiana – l’amore. Qui sta il problema di Tenet: il film, e il regista con lui, appaiono contratti, quasi soffocati dalla loro stessa ambizione, quella di tenere insieme più che mai i due poli.

È pur vero che uno di questi funziona decisamente meglio dell’altro e che, anzi, appare quasi negativamente mitigato dalla presenza stessa dell’altro; come quando, in cucina, due ingredienti, dei quali uno è quello dominante, non si amalgamano bene. La direttrice privilegiata da Nolan appare – da sempre! – evidente: il congegno è forse il più sofisticato tra i suoi congegni, ma funziona, perché il suo artefice sa come oliarne al meglio il meccanismo. 

Così, Tenet scorre in una direzione lineare, proprio come il tempo, ma fino a un certo punto: poi, proprio come il tempo, può invertire la propria direzione, pur mantenendo la linearità. Non ci sono sotto-livelli a mo’ di matrioska come accadeva in Inception, non c’è l’irrompere della relatività come in Interstellar: c’è l’inversione, un fenomeno fisico per cui alcuni oggetti si presentano con entropia invertita. In parole povere, tornano indietro nel tempo, anziché andare avanti: il che ha portato alcuni detrattori a definire Tenet come «l’ennesimo film sui viaggi nel tempo».

Pur senza incensarlo, occorre qui prendere le difese del film: l’invenzione di Nolan è straordinaria e inaudita, per due ordini di motivi.

Dal punto di vista visivo, innanzi tutto, Tenet presenta alcune delle sequenze più memorabili mai girate dal suo regista: la genialità sta nell’aver preso situazioni convenzionali della spy story – un inseguimento, una scazzottata, una battaglia, un interrogatorio-ricatto con tortura – e averle piegate alla propria estetica. Dato che il tempo scorre sia in avanti che indietro, semplicemente Nolan ci mostra queste sequenze in entrambe le direzioni, prima da un punto di vista, poi dall’altro, ma sempre simultaneamente: avevamo già visto persone e oggetti che tornano indietro nel tempo, d’accordo, ma mai avevamo visto persone e oggetti nell’atto di tornare indietro nel tempo.

Anche dal punto di vista narratologico Tenet si spinge in un territorio impervio e – quasi – mai tentato prima: tutto il film ruota intorno al meccanismo dell’inversione, e quest’ultimo ci viene mostrato definitivamente in azione nella scena centrale, quella dell’interrogatorio-tortura. A partire da quel punto, il film è narrativamente – oltre che visivamente, sebbene al contrario – palindromo: pur procedendo, ai nostri occhi, in avanti, la narrazione scorre all’indietro, ricongiungendosi alla fine, perfettamente, con l’inizio.

Una storia leggibile in più direzioni, forse in tutte, come il misterioso “Quadrato del Sator” a cui Nolan si è ispirato fin dal titolo: un film che parla di sé, tentando – anche troppo, in certe sequenze – di spiegare sé stesso, un film che farà parlare di sé, che in fondo è la cosa più importante.

E allora che cos’è che proprio non funziona? L’altro polo, l’ingrediente meno dominante ma comunque presente, e anzi in grado di guastare l’equilibrio generale. 

Rispetto al meccanismo e alla struttura narrativa, la sceneggiatura di Tenet assomiglia a una scarpa che calza corta: il problema in cui è incorso Nolan scrivendo un film di James Bond e adattandolo al suo mondo, è che non ha tenuto conto del fatto che gli spettatori si aspettano dalle sue trame una profondità che non si aspetteranno mai da un film di James Bond.

I personaggi di Tenet, come quelli del franchise di 007, non hanno introspezione, mancano di interiorità e background: il fatto grave è che si tratta di un errore consapevole, commesso con cognizione di causa, se Nolan arriva a privare il suo eroe (John David Washington) del proprio nome, designandolo solo come “Il Protagonista”. Il villain Andrej Sator (Kenneth Branagh) non convince del tutto, pur essendo di gran lunga il personaggio più interessante della storia, insieme con Neil, interpretato da un ottimo Robert Pattinson. Il vero vuoto narrativo – ed emotivo – si percepisce però tutto intorno alla figura femminile di Cat (Elizabeth Debicki). La moglie di Sator dovrebbe essere il perno attorno al quale tutto Tenet ruota ma finisce per sembrare, nei suoi intenti e nei suoi atteggiamenti, stupidamente banale in confronto alla complicatezza della struttura narrativa. 

Ancora una volta, due ingredienti che non si sono amalgamati bene, in un film che farà parlare di sé, ma paradossalmente non certo per la sua storia: forse anche questo è un primato, un fatto inaudito, quindi forse anche questo farà contento un regista che, lo abbiamo ormai capito, dall’inaudito è tormentato.

Con Tenet, Nolan riesce nell’impresa di creare un film che forse non verrà ricordato, ma che comunque si presenta come un’opera memorabile. E non è del tutto detto che non lo sia, dato che, dopo così tanta siccità, rappresenta al meglio tutta la magia e tutti i limiti del cinema, del fare cinema e dell’andare al cinema: dopo tutto, se non altro, siamo ancora tutti qui a parlarne.

(Tenet, Christopher Nolan, 2020, azione, 149’)

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LA CRITICA

Con Tenet, Nolan gira il suo film più riconoscibile, immenso, barocco e imperfetto: un congegno freddo, forse fin troppo complicato, che non riesce mai a scaldarsi del tutto. Bello da guardare (e da ricordare e da dibattere) con il cervello e il cannocchiale, deludente da guardare (e da ricordare e da dibattere) da vicino e con il cuore.

VOTO

7/10

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effe

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