Cesare Pavese compreso da pochi

Davide Lajolo, “Il «vizio assurdo». Storia di Cesare Pavese”

di / 29 ottobre 2020

copertina di davide lajolo il vizio assurdo

A volte occorre solo scegliere le parole giuste, e unirle, quel tanto che basta a renderle inevitabili. Quando Cesare Pavese scrisse i diciannove versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, scelse e unì le due parole più autentiche e inesorabili della sua esistenza. E quando Davide Lajolo decise di scriverne la biografia, si affidò proprio a quelle due parole, per distillare in un titolo l’intera vita dello scrittore piemontese. Il «vizio assurdo». Storia di Cesare Pavese è un libro bello e genuino, introvabile fino a poco tempo fa. Tornato in libreria per minimum fax (2020), è corredato da una ricca e interessante postfazione, in cui Lajolo risponde, tra l’altro, a chi lo accusava di aver peccato di sentimentalismo, di aver indugiato troppo a lungo nell’anima di Pavese, al punto da averlo trasformato in un personaggio letterario.

«Ogni vita è quello che doveva essere»: di questo Cesare Pavese era profondamente convinto, tanto da scriverlo a chiare lettere il 31 marzo del 1946, nel suo diario Il mestiere di vivere, in cui insegnò a tutti noi il dolore di essere protagonisti di una storia irreparabile: il destino è già scritto, ed è per questo che i suoi eroi, vinti e inconfessati, non hanno neppure un cognome: si portano dietro solo poche sillabe, a volte un nomignolo, come un segno inesorabile impartito dalla terra. Nell’universo di Pavese, infatti, il luogo in cui si nasce è una corda che non può essere spezzata, un peso che opprime e salva, una figura materna amorevole e sanguigna. La madre di Cesare, scrive Lajolo, è una piemontese dura e severa, «che ha imparato a non spendere molte parole, ma a lavorare sodo, a tener da conto, e a metter corte briglie sulle spalle dei figli». Pavese le ruberà il rigore e i lineamenti aspri; e la vergogna delle lacrime che già da piccolo, feriscono il suo volto. Per nascondere il dolore rafforza i tratti ossessivi, adotta rituali silenziosi e metodici che gli permettono di affrontare il mondo: arrotolarsi i capelli, «piegare e ripiegare le pagine dei quaderni», sistemarsi gli occhiali, scrivere i sinonimi. Tutto, pur di difendersi dagli schiaffi del destino.

Ma il Pavese raccontato da Lajolo è anche il ragazzo spensierato e divertente degli anni universitari, che, per la prima volta, seppur lontano dalla sua amatissima campagna, si sente accolto: l’incontro con Massimo Mila, Leone Ginzburg, così come l’amore per la scrittura, riaccendono in lui il desiderio feroce per la vita. «Cesare sapeva essere allegro, entusiasta, divertente e divertito», racconterà proprio Mila a un meravigliato Lajolo: scriveva versi scanzonati, partecipava alle riunioni politiche e letterarie, andava al cinema a vedere i film americani.

Sarà il confino a segnarlo, piegarlo, ma anche a donargli la capacità di osservare le cose. Il dolore non è un male che offusca la mente e la ragione: la sofferenza, infatti, sa essere straordinariamente razionale al punto che Pavese stesso la racconta, sempre, e in modo impeccabile. Non c’è un suo scritto, pubblico o privato, in cui non indaghi le ragioni del dolore. Un dolore che non lo avvelenava ma, al contrario, lo nutriva giorno dopo giorno, donandogli profondità e talento.

A Brancaleone ci arriva in manette, additato da una bambina alla stazione, come un criminale; e la punizione non poteva essere più crudele: strappato dalle Langhe e da Torino, e costretto a vedere il mare, temuto, odiato e mai capito: «quel perenne giochetto delle onde sulla riva e quel basso orizzonte, odor di pesce». Proprio lui che a Melville e al suo potere evocativo, dedicò notti di traduzione e pagine bellissime: «il mare è assai più che un ambiente: è il volto visibile, infinitamente ricco di analogie, dell’arcana realtà delle cose», come scrisse nell’introduzione di Benito Cereno, breve romanzo dello scrittore americano.

Ritornano in quel periodo il rigore e il senso del dovere, che gli permettono di non spezzarsi, di andare avanti solo con pane e frutta, di sopravvivere all’inferno umido, al vento implacabile, alla presenza acuta e dispettosa degli scarafaggi. «La puntura della solitudine» diventa tagliente e arriva l’amarezza dei ricordi, la nostalgia dell’infelicità passata: «Ripenso a quando mi permettevo di non dormire una notte per un po’ di gelosia – osavo darle questo nome – e non sapevo quale morso da affamato, da squalo, da cancro abbia la lontananza», scrive alla sorella Maria. Poi si guarda allo specchio per capire se l’insanabile condanna alla sofferenza sia davvero toccata a lui, se non sia invece uno scherzo del destino: «mi tocco un neo sulla guancia per convincermi di essere proprio io».

La speranza di rivedere Tina Pizzardo, la donna che ama, si infrange quando scopre che si è sposata il giorno stesso del suo ritorno a Torino dopo il confino. È da quel momento, secondo Lajolo, che le cose precipitano: le idee si trasformano allora in abitudini di cui non riesce a fare a meno. La morte divenne, così, per Pavese una compagna silenziosa e fedele, l’unica a non voltargli mai le spalle.

Il  rapporto con le donne è uno degli elementi essenziali, ma anche uno dei più complessi della sua vita: influenzato dalla letteratura americana, Pavese cerca di emanciparsi dalla figura materna da cui proviene, per rivolgersi a donne indipendenti, spregiudicate, moderne, autosufficienti, «quelle che sanno portare la pelliccia e stare come si conviene nelle case eleganti». Ma proprio perché autonome non subiscono il fascino di un uomo come lui: Pavese assegna loro un ruolo eccessivo rispetto allo spazio che effettivamente occupano nella sua vita, eppure trova mille modi per tenerle a distanza. «Sono un popolo nemico le donne, come il popolo tedesco»: in loro tende a far confluire passioni e pulsioni diverse, spesso in conflitto. Della Pizzardo («la donna dalla voce rauca») amava il suo essere forte, sportiva, emancipata, impegnata politicamente: proprio lui che della politica aveva una visione del tutto personale.

Le donne di Pavese sono «oggetto di pietà e di vendetta», nei suoi romanzi come nella vita. Perché Pavese non conosce strategie in amore, come spiega Lajolo: «lascerà capire innanzi tutto, di non essere più padrone di sé; lascerà capire che nulla per lui nella giornata vale quanto il momento dell’incontro». Ma quando in qualcuna scorgerà un bagliore della stessa sincera devozione, si allontanerà, o si dimostrerà ostile.

Per quietare il dolore Pavese si rifugia nel lavoro, nella ricerca di una scrittura personale e autentica, contaminata dal mito, ma capace di riflettere la ferocia e i tormenti della gente. Nascono Paesi tuoi e Il carcere, ritornano le Langhe, la terra assolata, la trebbiatura, i contadini; le riflessioni silenziose sulla politica, sulla guerra, sulla libertà. Per un po’ cerca di unire sé stesso al mondo, senza indugiare nel dolore, nell’autocommiserazione tenacemente riportata nel suo diario. Ma la vita, ci insegna Lajolo, non è mai lineare: e se talvolta Pavese riesce a far tacere quel «vizio assurdo» che lo tormenta giorno e notte, alla fine torna alle vecchie abitudini. Un nuovo amore, questa volta per una sua ex studentessa Fernanda Pivano, gli restituisce l’idea di un destino che ha l’odore di una condanna. Cinque anni di amore assoluto e devoto, in cui Pavese non prova mai a baciare Fernanda, le dà del lei, le legge poesie di Montale e le chiede di sposarlo ben due volte: due rifiuti che torneranno a pesare quanto quelli della Pizzardo. E quanto peseranno la fuga e l’assenza di Constance Dowling, l’attrice americana che gli spezzerà il cuore, anni dopo.

Arriva il momento, allora, di osservare la solitudine, di dar forma a un suicidio finora solo immaginato, di studiarne i particolari con rigore: quello stesso rigore che gli era stato insegnato dalla madre, dalla vita contadina, dalla città arida, dalla scuola severa, dal lavoro e dalla scrittura.

Il finale amaro si consuma in una camera d’albergo il 27 agosto del 1950.

«Io sono fatto di tante parti, che non si fondono»: disse Pavese a Lajolo in un caldo pomeriggio d’estate a Torino. E basterebbero queste poche parole (riportate scrupolosamente nell’introduzione) per comprendere il senso della sua vita e della sua morte. Pavese sapeva di aver lasciato molte tracce di sé nelle pagine scritte, ma sapeva che il grande conflitto che lo divorava sarebbe stato compreso da pochi; così come quel bisogno, incompiuto, di unire le parti, riconciliare gli opposti e imporre il suo rigore anche sul destino.

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