Rovelli e la bellezza della grammatica nascosta

“Helgoland” di Carlo Rovelli

di / 16 novembre 2020

Copertina di Helgoland di Rovelli

C’è stato un tempo in cui pensavamo che il mondo fosse semplice. Che ci fosse un ordine nascosto ma determinato in cui ogni cosa aveva il suo posto. Negli anni in cui Dante scriveva la Divina Commedia, potevamo dire con certezza che una cosa esisteva e che quel particolare modo in cui si manifestava a noi era uno e uno solo, e per una ragione ben precisa. Vedevamo tutti le stesse cose.

Poi, con il passare dei secoli, la scienza ci ha aiutato a scoprire le «grammatiche nascoste» del mondo, a scomporre la materia in pezzettini sempre più piccoli e a vedere intorno a noi campi fatti di forze. Grazie a Faraday e Maxwell abbiamo scoperto il campo elettromagnetico e la ragione per la quale i corpi si influenzano l’uno con l’altro pur essendo lontani. Poi è arrivato Einstein con la sua descrizione della gravità e noi, aggiungendo un altro pezzo a ciò che sapevamo grazie a Newton, abbiamo capito che lo spazio e il tempo non sono due dimensioni slegate tra loro ma un tutt’uno, i fili di una rete che tiene insieme tutto: lo spazio-tempo.

Con il trascorrere dei decenni la complessità è cresciuta e mentre la letteratura raccontava che siamo Uno, nessuno e centomila e nell’arte si affermava la visione scomposta del Cubismo, un gruppo di ragazzi nel pieno del fervore intellettuale iniziava a farsi domande inconcepibili fino a poco tempo prima e a costruire strumenti matematici e filosofici nuovi per risolvere lo straordinario rebus messo sul tavolo da Einstein con i primi quanti, i fotoni.

Anche solo capire cosa c’è dentro la straordinaria rivoluzione scientifica innescata dalla teoria della meccanica quantistica non è un’operazione semplice. Carlo Rovelli lo sa bene e con il suo Helgoland (Adelphi, 2020) mette in piedi una coraggiosa operazione di divulgazione. Riavvolge il nastro del tempo e rievoca i protagonisti e le vicende che portarono a quella storica svolta di cui, ancora oggi, non sono chiare tutte le implicazioni.

La storia inizia su un’isola del Mare del Nord, Helgoland appunto, con un ragazzo di ventitré anni che ha l’intuizione che cambierà per sempre il corso della fisica. «Erano le tre del mattino quando il risultato finale dei miei conti fu davanti a me. Mi sentivo profondamente scosso…». Werner Heisenberg, questo il suo nome, sa di aver trovato qualcosa ma non ha ancora capito bene cosa. Comprende, però, di avere tra le mani un metodo per rispondere alla sfida postagli dal grande Niels Bohr che lo aveva chiamato a Copenaghen insieme ad altri giovani e brillanti fisici con un obiettivo ben preciso: trovare il pezzo mancante, cioè calcolare qualcosa che giustificasse i risultati delle equazioni che lui stesso aveva inventato.

Come spiega Rovelli, Niels Bohr aveva scritto delle formule strane che riuscivano a prevedere le proprietà degli elementi chimici prima ancora di misurarle. Prevedevano, ad esempio, la frequenza della luce che emettono gli elementi scaldati (il colore che prendono), ma non permettevano di calcolarne l’intensità. Come se non fosse abbastanza, le equazioni assumevano senza motivo che gli elettroni negli atomi orbitassero intorno al nucleo solo su certe precise orbite, a certe precise distanze dal nucleo e con certe energie, e che saltassero da un’orbita all’altra. Per qualche inspiegabile motivo funzionavano.

Compito di Heisenberg nel 1925 è scoprire perché. Qual è la forza che guida gli elettroni nelle loro orbite e negli strani salti di Bohr? Che cos’è che fotografano esattamente quelle equazioni? Servono idee radicali per rispondere e Werner sceglie di fare una cosa che a noi sembra scontata: descrive solo ciò che può osservare dall’esterno. Con questa filosofia, partendo da frequenza e intensità, ricalcola l’energia dell’elettrone e, sostituendo variabili con tabelle, riesce a ritrovare Bohr.

Già qui i fili iniziano a ingarbugliarsi. Eppure, pur nella difficoltà dell’argomento, Rovelli costruisce l’avvincente racconto dei tentativi di cogliere la grammatica nascosta per eccellenza. Idea dopo idea, intuizione dopo intuizione, formula dopo formula, fallimento dopo fallimento. Parte fondamentale del libro, infatti, è proprio il modo con cui si arriva a formulare la teoria della meccanica quantistica. Molto del fascino dell’impresa, fascino che è evidente anche a chi non mastica fisica, sta proprio nel coraggio di Heisenberg, Bohr, Born, Pauli, Dirac, Jordan, Broglie e Schrödinger. Il coraggio di mettere sempre tutto in discussione, di costruire edifici per poi rifarli da capo.

La costruzione della teoria dei quanti, in effetti, fu prima di tutto un gioco di squadra. Un gioco di menti che vissero in un momento storico ricco di stimoli, facendo tesoro di quanto altre menti e altre discipline avevano già prodotto. La scienza, ci tiene a sottolineare Rovelli qua e là lungo la narrazione, unisce i puntini ed è ciò che è anche perché alcuni uomini e alcune donne applicano al loro campo e ai loro problemi modelli e strumenti con approccio multidisciplinare, sperimentando, nutrendosi dei contributi altrui. La scienza è sfida, è pensiero in movimento e quindi richiede di ragionare fuori dagli schemi, di imparare a costruire con materiali di provenienza di volta in volta diversa.

Anche i geni, del resto, come ci ha insegnato il Rinascimento, non vengono dal nulla. Sono il prodotto della loro epoca e del contesto in cui si trovano ad agire. Non arrivano per caso. Heisenberg fu incoraggiato dal suo professore Max Born, che si dimostrò abile nel valorizzare il lavoro del suo studente, e fu aiutato dall’amico Pauli che perfezionò i suoi calcoli. Stesso discorso vale per le ipotesi di Schrödinger (quello del paradosso del gatto nella scatola), figlie della Vienna di inizio secolo dove pensiero orientale e Schopenhauer (mondo come volontà di rappresentazione…) si mescolavano senza conflitto.

Si spiegano così le lunghe digressioni di Rovelli nella filosofia passata e presente, occidentale e orientale. Tornano alla luce gli influssi di alcune figure chiave nella storia del pensiero. In primis Ernst Mach, fondamentale per la nascita degli studi scientifici sulle percezioni, ma anche Bogdanov, intellettuale straordinario e ingiustamente sconosciuto al grande pubblico (tra le altre cose fu medico, economista, filosofo, scienziato naturale, scrittore di fantascienza, poeta, insegnante, politico, pioniere della cibernetica e delle trasfusioni di sangue).

Insomma, non c’è solo fisica e matematica in Helgoland. La storia dei quanti, ci dice Rovelli, va oltre l’oggetto stesso dalla ricerca e può farci un grande regalo. Letta con mente aperta e curiosità, è un viaggio nel modo stesso in cui pensiamo e scopriamo. Coglierne solo una parte vuol dire perdersi molto. Fermarsi alla difficoltà delle formule e lasciare il campo agli scienziati è un peccato. La scienza non dovrebbe essere un edificio pieno di barriere all’ingresso, ma una casa che offre a tutti un’opportunità per interrogarsi sul grande mistero che è il mondo. È contaminazione tra discipline, esperienze e prospettive.

La scienza è «un’esplorazione di nuovi modi per pensare il mondo. È la capacità che abbiamo di rimettere costantemente in discussione i nostri concetti. È la forza visionaria di un pensiero ribelle e critico capace di modificare le sue stesse basi concettuali, capace di ridisegnare il mondo da zero».

Vogliamo davvero, domanda Carlo Rovelli, perderci tutto questo?

Forse vale la pena recuperare il grande insegnamento della scienza e collaborare insieme per riscrivere con una nuova grammatica il modo in cui vogliamo vivere. Le sfide per metterci alla prova non mancano e il mondo, ancora prima che di oggetti, è fatto di relazioni.

 

(Carlo Rovelli, Helgoland, Adelphi, 2020, 227 pp., euro 15, articolo di Gaia Mutone)

 

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