In trash we trust

“Mad in Italy” di Gabriele Ferraresi, ovvero «È la locura, René»

di / 3 dicembre 2020

Copertina di Mad in Italy di Ferraresi

La parola “trash” è vaga, si potrebbe dire, come le stelle dell’Orsa. «Ci sono» diceva il grande Tommaso Labranca, autore di Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash (Castelvecchi, 1994) «le giornaliste chic che considerano trash (o peggio kitsch) tutto quanto non serve a nobilitarle o tutto quanto abbia un vago riscontro popolare. Per cui Sanremo è trash e il festival della pizzica no […], i ragazzetti poco più che ventenni che fanno rimare trash con tutto quanto esistente prima della loro venuta al mondo. Penso a certi piccoli dj che inseriscono nelle loro serate il momento trash e suonano Califano. O certi cretinetti che esibiscono con orgoglio le magliette con Oronzo Canà, Fantozzi e Abatantuono. Poi c’è un comparto tipico dell’universo gay giovanile secondo cui è trash tutto quanto gli americani (e anche Arbasino) chiamerebbero camp: vecchie cantanti, elementi di moda eccessiva del passato, atteggiamenti sopra le righe. Ma nulla di tutto ciò è trash».

Ci ha pensato Gabriele Ferraresi, proprio il giornalista a cui Labranca aveva rilasciato questa dichiarazione in un’intervista nel 2006, a sistematizzare e aggiornare l’equazione secondo la quale il trash non è nient’altro che una forma di emulazione fallita: quando l’intenzione, insomma, non riesce a raggiungere il risultato, come nel caso del presentatore di una tv locale che vorrebbe imitare Pippo Baudo ma invece di Madonna può invitare al massimo Mario Tessuto, o come il Tg4 di Emilio Fede che vorrebbe imitare la CNN ma ha fra i suoi collaboratori Paolo Brosio.

Nasce così Mad in Italy. Manuale del trash italiano dal 1980 al 2020, uscito nel maggio 2020 per il Saggiatore. Si tratta di un’arma impropria in mano a chiunque sia attratto morbosamente da programmi come Blob e Stracult, ma anche per chi non abbia mai dimenticato i video di Laura Scimone e l’Uomo Gatto a Sarabanda, Tullio Solenghi e Gene Gnocchi in versione Striscia la berisha e il costumino di Sabrina Salerno in Boys Boys Boys, gli scazzi al Processo di Biscardi e il malore di Andreotti in diretta nel programma di Paola Perego. Un’antologia da divorare rigorosamente con YouTube sottomano, continuamente sospesi fra il ricordo divertito e il «ma davvero?».

Come qualcuno ha già ricordato, l’altro modello a cui si ispira Ferraresi è infatti Patria di Enrico Deaglio (pubblicato appunto dal Saggiatore), che in questo tipo di ricognizione capace di unire elementi della cultura popolare alla storia politica e sociale d’Italia ha fatto scuola.

Gli ingredienti sono di prima qualità e il piatto, infatti, non delude. Per ciascun anno dal 1980 al 2019 – il 2020 è ancora troppo “fresco” ma anche un anno spartiacque, di cui in piena emergenza pandemica si fa fatica a sorridere – l’autore fornisce un piccolo preambolo di inquadramento storico e un focus su alcuni principali episodi.

Ad esempio, per il 1984 abbiamo: Mike Bongiorno e la bigamia di Daniela Zuccoli, La Piovra, il pretore e le reti di Berlusconi, l’arresto di Vasco Rossi e il matrimonio tra Jerry Calà e Mara Venier. Oppure 2014: Emily Ratajkowski ed #Escile, The Lady di Lory del Santo, Paolo Ruffini e Sophia Loren ai David di Donatello.

Un manuale, dunque, che non può mancare sugli scaffali dei cultori della materia, ma molto utile anche per chi si fosse perso qualcosa, o per chi, novello adepto o forse solo anagraficamente più giovane, volesse accostarsi con zelo alla scoperta di splendori e miserie dell’Italietta nello specchio della sua rappresentazione.

Unica pecca, la mancanza di un indice finale che renda più facile rintracciare nel testo la miriade di personaggi citati, rendendolo uno strumento di consultazione ancor più definitivo.

Mad in Italy è un viaggio irresistibile, una sorta di amarcord festoso ma anche amaro (il gioco di parole è trash?): la televisione – o meglio, un certo tipo di televisione – ci ha resi peggiori o ha soltanto ritratto un inevitabile, inarrestabile decadimento?

Forse il nostro è sempre stato «un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte» – ovviamente non manca il capitolo dedicato a Boris, metaserie che ha fotografato in modo geniale il lavoro nell’industria culturale italiana e che dalla sua uscita nel 2007 è diventata, giustamente, di culto (diffidate da chi non l’ha visto come da quelli che sostengono di non aver mai guardato la tv!).

Forse prima tendevamo ad accorgercene meno, o non eravamo arrivati alla postironia, ai meme, a un orizzonte condiviso e comune che spopola sui social network, in pagine amene e gruppi come Sapore di male o Socialisti gaudenti.

Siamo nani sulle spalle di altri nani (quelli di Herzog), e sulle spalle delle reti commerciali, su tutte quelle Fininvest, che hanno accelerato, a partire dagli anni Ottanta, un processo già annunciato come inevitabile.

Nel 1963 Pier Paolo Pasolini, in un’intervista ad Arbasino, discutendo della tv (e dunque della Rai che – come ci ricorda Ferraresi nella prefazione – intervistava Fritz Lang e Le Corbusier, non esattamente Er Brasiliano e Pamela Prati) parlava già di tv spazzatura e dell’Italia come «un tugurio in cui i proprietari sono riusciti a comprarsi la televisione».

E Corrado Mantoni, indimenticabile conduttore della Corrida, nel 1997 risponde così a chi vuole sapere quale sia l’ingrediente segreto del successo inossidabile del suo varietà: «cambia continuamente ma in realtà non cambia mai». Una frase che riecheggia Tomasi di Lampedusa e Il gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».

Eppure non c’è tristezza, non c’è amarezza in Mad in Italy, c’è invece una forma elettrizzante di «locura» (ancora una volta, citazione da Boris): da un lato Ferraresi, nel solco di Labranca, e noi con lui, scusa il trash perché espressione tutto sommato genuina e quindi positiva dell’italico spirto, dall’altra lo assolve con formula piena, data la non sussistenza dei fatti. L’Italia è una Repubblica fondata sul trash. Questi siamo noi, la Storia siamo noi, nessuno si senta offeso. E neanche escluso.

Perché nonostante qualcuno, come dicevamo, sostenga ancora, per snobismo, di non guardarla, è la televisione che, da sempre, guarda dentro di noi, soprattutto nei lati più oscuri. David Foster Wallace docet.

 

(Gabriele Ferraresi, Mad in Italy. Manuale del trash italiano dal 1980 al 2020, il Saggiatore, Milano, 2020, pp. 467, euro 20, articolo di Giulia Marziali)

 

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