I fantasmi di Hollywood

Viaggio nel passato per David Fincher

di / 11 dicembre 2020

Mank doveva essere uno dei film da incorniciare di questo anno disgraziato che ha paralizzato il cinema, tra le tante altre cose ben più gravi. Invece, l’atteso ritorno al lungometraggio di David Fincher è poco più di un ottimo esercizio di stile.

Il Mank del titolo è Herman J. Mankiewicz, giornalista di costume e sceneggiatore nella Hollywood degli anni Trenta. Dedito al gioco e all’alcol, Mank passa da un copione all’altro senza mettere alcun impegno nel suo lavoro. L’occasione di lavorare con Orson Welles, ragazzo d’oro del teatro e della radio chiamato al suo esordio alla regia, si trasforma in un’occasione di confronto con il suo più recente passato. Il copione che riversa sulla carta diventerà poi Quarto potere, forse il film più importante della storia del cinema.

Per tornare al lungometraggio a sei anni di distanza da L’amore bugiardo, Fincher è riuscito a trasformare in film un copione scritto da suo padre una trentina d’anni fa. Un progetto che coltivava da tempo e che finalmente è riuscito a realizzare.

È quasi paradossale che un film che rende omaggio agli anni d’oro di Hollywood sia stato prodotto e distribuito da Netflix, la piattaforma streaming che in tanti indicano come responsabile della graduale morte della sala cinematografica. Fincher ha un rapporto privilegiato con il network per cui ha già realizzato serie come House of CardsMindhunterLove, Death & Robots, quindi c’è poco da stupirsi.

Lo stupore può invece venire per il risultato finale. Mank è un film a cui si fatica a trovare una vera anima. In una scena Louise B. Mayer – la seconda M di Metro, Goldwyn e Mayer  – dice ai fratelli Mankiewicz che la sua casa di produzione vuole colpire le emozioni, e aggiunge che le emozioni si trovano nel cervello, nel cuore e nei testicoli. Fincher non riesce a centrare nessuno dei tre bersagli. Il suo film non fa riflettere, non appassiona e non scalda.

Il tentativo di fare un’opera wellesiana su Orson Welles – eminenza grigia quasi sempre assente nel film – non funziona. Il confuso avanti e indietro temporale, poi, vorrebbe creare un continuum tra l’evoluzione del copione e il vissuto di Mank, ma si ingarbuglia.

Mank non riesce a creare un’epica del cinema né a costruire personaggi titanici. Sono tutti fermi a una dimensione bidimensionale, dal Welles di Tom Burke (praticamente un’imitazione) al William Randolph Hearst di Charles Dance.

Neanche Gary Oldman riesce a conferire grandezza drammatica al suo personaggio e finisce per accumulare una serie di cliché sull’alcolizzato geniale con tanto di momenti slapstick.

Tra un vago accenno a Moby Dick e un (prolisso) parallelismo con Don ChisciotteMank vorrebbe essere la rassegna di un’epoca, ma è solo un insieme mal assortito di suggestioni.

Rimane da evidenziare, però,l’eccellente livello di ricostruzione tecnica del film, girato come una pellicola d’epoca. Fincher si cala nei panni di un regista anni Trenta e confezione un’opera ineccepibile dal punto di vista stilistico, anche grazie al bianco e nero contrastato di Erik Messerchmidt.

(Mank, di David Fincher, 2020, biografico, 130’)

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LA CRITICA

Il ritorno di David Fincher al lungometraggio è un omaggio confuso e incoerente all’epoca d’oro di Hollywood. La grandezza si vede solo nello sforzo tecnico.

VOTO

5,5/10

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