Vita e dolori di Pascual Duarte

“La famiglia di Pascual Duarte” di Camilo José Cela

di / 15 dicembre 2020

Copertina di La famiglia di Pascual Duarte di Cela

Una parabola miserabile sull’impotenza umana; un atto d’accusa contro sé stesso; un tentativo ultimo di redenzione: ecco come appaiono le memorie incompiute che Pascual Duarte scrive dal baratro del carcere, in attesa di essere giustiziato. Pascual – personaggio ambiguo e respingente, feroce e insieme fragile – è il protagonista di La famiglia di Pascual Duarte, romanzo del 1942 di Camilo José Cela, scrittore spagnolo vincitore del Premio Nobel nel 1989.

La famiglia di Pascual Duarte, il suo esordio, pubblicato in precedenza da Einaudi, viene adesso riproposto dalla casa editrice Utopia (nella traduzione storica di Salvatore Battaglia). Utopia è nata nel periodo del lockdown dall’unione di alcuni under-trenta, con l’idea di creare un polo giovane e coraggioso nell’universo editoriale. Le sue prime pubblicazioni mostrano infatti una linea attenta alla grande letteratura e alle riscoperte: oltre a Cela, Utopia ha inaugurato il suo catalogo con Massimo Bontempelli, Pietro Scanziani e Anne Carson.

La famiglia di Pascual Duarte è un classico di matrice esistenzialista, denso di un pessimismo asfissiante e magnetico. Le sue pagine raccontano una storia antica: la sconfitta di un uomo contro i propri demoni, la rinuncia totale di fronte al rancore e alla brutalità. La forma del romanzo è la più intima possibile, la più indiscreta e incline a menzogne: la confessione. Pascual Duarte, assassino, mette nero su bianco la sua intera vita, e – una particolare forma di espiazione – la manda per lettera a un conoscente di una delle sue vittime. La confessione dell’uomo cattivo, il lamento del mostro, possiedono sempre qualcosa di contraffatto e scandaloso; eppure la mostruosità di Pascual è autentica proprio perché non gli appartiene: è il mondo intero, infatti, ad apparire anomalo e privo di speranze. Nella sua narrazione, nel suo delineare le squallide fattezze di un villaggio spagnolo di inizio Novecento, il catastrofismo da individuale si fa contestuale, e quindi smisurato, del tutto inevitabile.

La casa della famiglia Duarte – racconta Pascual – è piccola, sporca, «misera come il suo padrone»; sua madre è una donna invidiosa che non concede affetto; suo padre un uomo debole e violento. Una sorella più piccola, Rosario, è libera e ribelle solo in apparenza; un fratellino, Mario, gravemente malato, come maledetto per il suo essere innocente. In questo contesto Pascual non studia, non evade, e si trascina appresso, tutte insieme, le disgrazie di quei padri da cui non riesce a emanciparsi.

Capita anche che si innamori di Lola, la ragazza «con un paio di occhi fondi e luminosi che a guardarli lasciavano il segno dentro», e che la sposi. Ma – regola generale di ogni buona storia – è proprio quando le cose sembrano andare bene che accade il peggio. Dopo il matrimonio, la traiettoria di Pascual non sarà altro che una strada immobile e paurosamente dritta che lo condurrà a diventare un omicida; la sua è una vicenda già tracciata, un destino prefissato nei più minimi – e subdoli – dettagli.

Leggendo La famiglia di Pascual Duarte si sperimenta un forte desiderio di fuga: sarà lo stesso Pascual, nel romanzo, a tentare di scappare – illudendo per un istante, oltre che sé stesso, anche il lettore. Il protagonista vorrebbe arrivare fino in America, correre il più lontano possibile da quella casa che è sinonimo di sfortuna e di amarezza; finirà per ingannarsi da solo, per essere risucchiato dal vortice della fatalità. Tornerà nel suo villaggio: non avrebbe potuto fare altro.

La lingua con la quale Cela fa esprimere Pascual è semplice, ricca di proverbi, modi di dire ed esagerazioni. Lo scrittore vuole mimare la parlata popolare del suo protagonista, e ci riesce benissimo, donando al testo un effetto di paradossalità dolorosa: è la banalità del male che risuona nel lessico di Pascual, nei suoi ragionamenti approssimativi e nelle sue umanissime afflizioni; è come se Pascual facesse una continua parodia di sé stesso, è come se non si trattasse davvero della sua storia. In fondo, il messaggio più disturbante di La famiglia di Pascual Duarte è proprio questo: il suo protagonista è un uomo buono e ingenuo, un sempliciotto. Ma allora come è possibile che sia diventato un omicida, una bestia, un mostro?

Non si può che ascrivere Pascual Duarte tra i grandi personaggi tragici e autodistruttivi della letteratura novecentesca. Pascual è cattivo e anche buono, vittima e insieme carnefice, proprio come il Meursault di Lo straniero di Camus (pubblicato, non a caso, nello stesso anno). La sua unica colpa è quella di essere un uomo e quindi una creatura debole fino all’inverosimile: la rabbia e il dolore sono molto più forti di lui, lo assediano e lo controllano. L’umanesimo paradossale di Cela, però, si insinua proprio in questo resoconto della comune fragilità umana; nel perdono che in fin dei conti il lettore concede a Pascual si legge un grido di aiuto, un invito disperato all’empatia.

 

(Camilo José Cela, La famiglia di Pascal Duarte, trad. di Salvatore Battaglia, Utopia, 2020, 160 pp., euro 16, articolo di Claudio Bello)

 

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