Bologna: i mandanti dell’orrore

“L’oro di Gelli” di Roberto Scardova

di / 28 gennaio 2021

Copertina di L'oro di gelli di Scardova

Pochi minuti dopo lo scoppio della bomba alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 alle 10.25, Roberto Scardova era già sul posto a documentare la storia di quella tragedia che uccise 85 persone innocenti. In L’oro di Gelli, uscito nel quarantennale della strage, Scardova, per anni giornalista Rai e collaboratore dell’Unità e del Resto del Carlino, riporta gli ultimi e impressionanti sviluppi investigativi circa il filone dei mandanti, oltre ai fatti che nel gennaio 2020 hanno portato alla condanna in primo grado di Gilberto Cavallini, il quarto uomo dei neofascisti dei NAR presente alla stazione il 2 agosto insieme a Fioravanti, Mambro, Ciavardini.

Dopo l’esposto presentato nel 2012 dall’Associazione dei familiari delle vittime alla procura di Bologna, e anche grazie alla digitalizzazione degli atti giudiziari che ha permesso di riconnettere fatti e circostanze che prima si pensavano scollegati, la Guardia di Finanza ha condotto approfondite indagini su alcuni documenti sequestrati a Licio Gelli, capo della loggia massonica P2, al momento del suo arresto in Svizzera nel settembre 1982. Ed è arrivata alla conclusione che tali documenti – appunti contabili già agli atti del processo sul crack del Banco Ambrosiano, ma all’epoca considerati privi di rilevanza al di fuori del fallimento bancario – si riferiscono ai presunti finanziamenti di Gelli agli autori materiali della strage. Quali mandanti dell’eccidio, oltre allo stesso Licio Gelli, sono ora accusati il suo braccio destro Umberto Ortolani, l’ex direttore del Borghese e senatore missino Mario Tedeschi, e Federico Umberto D’Amato, che fu il capo dell’Ufficio Affari Riservati, potente struttura segreta del ministero dell’Interno. Tutti deceduti, nel frattempo. Ma per la verità sul più feroce eccidio nella storia repubblicana, il punto più tragico e sconvolgente della strategia della tensione, non è mai troppo tardi.

Quello che ha attratto l’attenzione degli inquirenti, del documento riemerso, è l’intestazione «BOLOGNA» seguita da un numero di conto corrente, proprio quello di Licio Gelli, sotto la quale figura poi una tabella in cui sono riportati importi, date, denominazioni. Queste ultime, secondo gli inquirenti, fanno pensare a strutture militari dello stato («Dif. Roma», «difes. Milano») e a suoi uomini («relaz. Zaff.», «Tedeschi artic»); mentre le cifre dei pagamenti usciti dai conti di Gelli e sottratti dal crack dell’Ambrosiano ammontano a un totale di 14 milioni di dollari. Le date sono tutte a cavallo del 2 agosto 1980: da fine luglio a inizio settembre. Il che parrebbe dimostrare che la P2 non abbia avuto solo un ruolo di depistaggio, come già accertato dal processo sulla strage, ma ne sia stata l’organizzatrice diretta.

Le strutture militari dello stato che questo foglio colloca a Milano e a Roma sarebbero identificabili negli apparati eversivi (con funzione anticomunista) di Gladio e dell’Anello. Strutture militari venute alla luce solo negli anni Novanta, nell’ambito delle quali erano addestrati e integrati i civili neofascisti di Ordine Nuovo. Avanguardia Nazionale invece, organizzazione fascista sorella di ON, risultava strettamente dipendente dall’Ufficio Affari Riservati di D’Amato. Le nuove risultanze investigative confermano in maniera pressoché inequivocabile e drammatica quel che già si sapeva: per circa 11 anni, dal 1969 al 1980, in Italia si è fatto un uso politico della violenza, avallato istituzionalmente, per impedire un’evoluzione democratica della società italiana e alla legittima ascesa delle classi popolari al governo del paese. Il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro e dei suoi agenti di scorta nel 1978 e la strage di Bologna sono l’acme di questa strategia della tensione, iniziata nel 1969 con la strage di Piazza Fontana a Milano (17 morti e 88 feriti); una strategia che seppe strumentalizzare a suo favore il terrorismo neofascista tanto quanto il terrorismo brigatista. Anche per questo vale la pena di leggere il libro di Scardova, che unisce in maniera ancora più nitida i tasselli del tragico mosaico.

L’altra novità di L’oro di Gelli riguarda l’ultimo processo sulla strage, quello a carico di Gilberto Cavallini conclusosi in primo grado con la condanna all’ergastolo. Neofascista milanese, classe 1952, Gilberto Cavallini è attivo fin dagli anni Settanta negli scontri di piazza e nei pestaggi verso i militanti di sinistra. Nel 1976 uccide lo studente antifascista Gaetano Amoroso; condannato a 13 anni di carcere, riesce a evadere nel 1977. Subito protetto dal numero due di Ordine Nuovo, Massimiliano Fachini, Cavallini sarà l’anello di congiunzione tra il neofascismo veneto e quello romano, specialmente per quanto riguarda il trasporto di armi ed esplosivi con l’aiuto della criminalità comune. A fine 1979 fa la conoscenza dei NAR del gruppo di Valerio Fioravanti.

Il 23 giugno 1980 è proprio Cavallini a uccidere il sostituto procuratore di Roma Mario Amato, il quale, lasciato solo dal resto della magistratura capitolina a indagare sul terrorismo neofascista, era giunto a una verità d’insieme. Dietro i singoli atti criminosi commessi nella capitale rivendicati da sigle diverse (NAR, TP, CLA, MRP…) si muovevano i sempiterni tessitori di trame dell’eversione nera: da Paolo Signorelli a Stefano Delle Chiaie, da Mario Tuti a Franco Freda. «Siamo in pratica alle soglie di una guerra civile» denunciava Amato di fronte al CSM il 13 giugno 1980. Gli fu addirittura negata la scorta. E fu ucciso alla fermata dell’autobus di viale Jonio: il progetto stragista poteva proseguire senza intoppi.

Nel corso del processo bolognese sono emerse prove pesanti. Una banconota spezzata, sequestrata in casa di Cavallini al momento del suo arresto nel 1983, che lascerebbe pensare a un lasciapassare per i depositi di armi di Gladio; due utenze telefoniche nell’agenda di Cavallini riconducibili alla linea riservata dell’allora SIP di Milano e allora in uso, pensano gli inquirenti, ai servizi segreti; la Opel Rekord 2000 con la quale i NAR sostengono di essersi spostati da Treviso a Padova la mattina del 2 agosto, che però risulterebbe essere stata portata proprio il 2 agosto in una carrozzeria di Milano, anch’essa legata al gruppo dell’Anello. Infine, i covi dei NAR a Milano e a Roma in appartamenti ricollegabili a società immobiliari dei servizi segreti, per i quali è stato rinviato a giudizio per false dichiarazioni al pm Domenico Catracchia, l’amministratore della società immobiliare delle palazzine romane di via Gradoli (ebbene sì, la stessa via e lo stesso appartamento delle BR in cui era detenuto Moro). Sempre nel quadro dell’inchiesta sui mandanti, sono accusati di depistaggio pure gli ex militari dei servizi segreti Piergiorgio Segatel e Quintino Spella: avrebbero mentito, o meglio negato, sulla loro conoscenza preventiva della strage, di cui in realtà avevano appreso nel luglio 1980 dagli ambienti della destra armata genovese e romana.

Ultima importante novità processuale riportata da Scardova è il coinvolgimento diretto nella strage di Paolo Bellini. Militante di Avanguardia Nazionale, latitante in Sud America, pilota di volo (si faceva chiamare Aquila Selvaggia), esperto nel furto di opere d’arte e successivamente coinvolto nei primi anni Novanta nella “trattativa” Stato-mafia, il nome di Bellini veniva associato alla strage fin dal 1983. Oggi, grazie alle migliori tecniche di visualizzazione dei filmati amatoriali dell’epoca, è stato possibile constatare una spiccata corrispondenza tra il volto di Bellini e quello di un uomo nei pressi della stazione di Bologna il 2 agosto 1980 nei momenti immediatamente precedenti e successivi l’attentato. In un filmato in Super8 girato da un turista tedesco, Bellini è stato riconosciuto anche dalla ex moglie. Per lui si attende ora il processo.

L’oro di Gelli si conclude con un prezioso resoconto dell’ex magistrato Claudio Nunziata, estremamente dettagliato, sulle prove e i fatti ricostruiti negli anni, che aiutano a comprendere meglio il contesto in cui maturò l’eccidio. Anche per questo è un libro da leggere: Scardova è una garanzia di affidabilità e finora non era mai stato possibile ritrovare nello stesso volume una ricostruzione così completa sulla strage, capace di restituire l’orrore di una bomba che uccise decine di innocenti, ma anche l’orrore del contesto politico che fu in grado di partorire un crimine così terribile.

Sono trascorsi più di quarant’anni, ma è bene resistere alla tentazione di considerarla “roba vecchia”. Non ultimo perché, malgrado la fine della Guerra fredda, lo scenario internazionale dell’epoca non è poi così diverso da oggi. Anzi, si è sbilanciato sempre più a favore degli Stati Uniti, i veri ispiratori della strategia della tensione e delle stragi.

 

(Roberto Scardova, L’oro di Gelli, con un intervento di Claudio Nunziata, Castelvecchi, 2020, 156 pp., euro 17,50, articolo di Francesco Nesti)

 

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