Silenzi di carta

“Le città di carta” di Dominique Fortier

di / 8 febbraio 2021

Copertina di Le città di carta di Fortier

Tanto è stato scritto su Emily Dickinson, la cui figura ancora oggi conserva dei segreti. Di lei conosciamo un unico volto, quello che ci restituisce una sua fotografia di quando aveva sedici anni: un corpo sottile avvolto in un vestito blu, uno sguardo attento accompagnato da un leggero sorriso sulle labbra e due elementi che accompagneranno per sempre la sua vita: un libro e un mazzolino di fiori.

La storia ci consegna una sola immagine, che in Le città di carta (Alter Ego, 2020) di Dominique Fortier riesce a prendere vita, animandosi davanti e dentro di noi. L’autrice, con questa biografia intimista, ci fa immergere gradualmente nella storia personale di Emily Dickinson e ce la racconta vestendo il suo mondo interiore. E noi ci facciamo portare nei misteri della poetessa americana, tanto che in queste pagine ci sembra di essere alla scrivania con lei, a osservare dietro alla finestra il fruscio delle foglie mosse dal vento e quell’universo di creature e suoni che popolano il suo giardino e la sua poesia. Dominique Fortier ci accompagna in quella stanza segreta che è la sua mente, dove i libri occupano da sempre lo spazio più grande, perché è il mondo stesso a richiamarli.

Emily Dickinson nasce nel 1830 ad Amherst, nella prima casa in mattoni della città fatta costruire dal nonno paterno. È qui, in questa cittadina «un po’ fuori dal tempo e dallo spazio», e nella cornice storica di un’America puritana, che Emily trascorre la sua prima infanzia e la vita adulta insieme ai genitori e ai suoi due fratelli, Austin e Lavinia, che ama profondamente. Il padre, Edward Dickinson, severo e allo stesso tempo benevolo, ritiene che i figli non debbano essere viziati, per questo regala loro solo libri e stampe. Emily, quindi, si avvicina fin da piccola alla carta, e lì impara subito a trovarvi rifugio, come rifugio troveranno anche le piante e i fiori che raccoglierà per realizzare meticolosamente il suo erbario. Dopo essere andata a scuola alla Amherst Academy, trascorrerà poco meno di un anno al Mount Holyoke Female Seminary, dove inizierà a manifestarsi il suo carattere deciso e ostinato, insieme alla sua volontà di non accogliere l’esistenza di un Dio che trascende le parole: l’unico filtro attraverso il quale Emily riconosce il mondo.

Per questo, «quando alza gli occhi al cielo, Emily non vede altro che le nuvole» e l’Eden, per lei, è innanzitutto un giardino. Poco meno di un anno dopo, fa ritorno nella sua casa ad Amherst, felice di potersi di nuovo chiudere la porta della sua camera alle spalle per entrare in dialogo con la sua solitudine e i suoi silenzi. È dentro lo spazio della sua stanza che scrive poesie, annota pensieri e intrattiene fitte corrispondenze con persone reali o immaginate, accumulando segretamente nei suoi cassetti veri e propri imperi di carta. L’unico mondo che Emily riconosce, infatti, è quello che si veste d’inchiostro per tracciare parole sul rovescio di una busta da lettere o sul frammento di un sacchetto di farina vuoto.

Emily è fatta «di carne, di sangue e d’inchiostro» e i suoi pensieri sono inframezzati da tanti trattini che sembrano respiri, come se volessero dare la possibilità ai silenzi di insinuarsi fra le parole. Da sempre «scissa nel tentativo di vivere e al contempo scrivere la vita», verso i trent’anni deciderà di fare della scrittura e della solitudine una scelta radicale. Inizierà quindi il suo isolamento, riducendo prima le sue visite in città, per poi limitarsi a qualche uscita nel suo giardino e infine chiudersi nella sua camera al secondo piano senza uscire mai più.

Sono molti gli studiosi che si chiedono cosa abbia portato Emily a raccogliersi e a sciogliere ogni contatto con il mondo esterno: un trauma? Un amore infelice? Un qualche evento significativo? In Le città di carta Dominique Fortier prova a darci una risposta, come se parlasse di un’amica. Forse, dice, a un certo punto della sua vita la poetessa ha semplicemente deciso di assecondare la sua natura, di accogliere quel suo bisogno istintivo di chiudersi in silenzi e abitare l’unico mondo che per lei ha un’esistenza concreta: quello fatto di parole scritte sulla carta. Con il suo isolamento, quindi, non ha cercato di nascondersi o proteggersi, ma di immergersi nella profondità delle cose per abitarle attraverso la poesia. La sua scelta diventa così radicale che Emily decide di spogliarsi anche dei colori e di vestirsi solo di bianco, come se a un certo punto fosse lei stessa a voler diventare un «essere di carta», una pagina vuota da riempire. II colori restano fuori dalla sua stanza, e il bianco inizia a dominare la sua vita.

Bianche sono anche le sue poesie, che palpitano nell’oscurità per illuminare il mondo, come piccole lucciole. Emily dedica la sua esistenza all’osservazione e all’ascolto: sente i respiri delle foglie, il profumo dei fiori o i silenzi del suo giardino ricoperto di neve, e questo mondo che vede attraverso una finestra «finirà per essere tutto contenuto nella punta della penna che stringe tra le dita»: un cumulo di foglietti ripiegati e cuciti da lei stessa con ago e filo, che verrà scoperto solo dopo la sua morte dalla sorella Lavinia. Sappiamo che Emily Dickinson scrisse più di tremila poesie, insieme a centinaia di lettere, pensieri sparsi e appunti, e che solo sette dei suoi componimenti vennero pubblicati in vita. Avversa alla notorietà, lei stessa era restia alla pubblicazione, come se la vita dello scrittore dovesse intrinsecamente nutrirsi di silenzi e la scrittura fosse un atto fine a se stesso, che non chiede riconoscimenti. Emily voleva solo abitare l’unica realtà che la faceva sentire esistente, quella popolata da esseri di carta: la poesia.

Come le città di carta, che pur avendo coordinate precise hanno una verità solo sulla mappa, così Emily esisteva, viveva e sentiva, ma sentiva di avere una realtà effettuale solo sulla pagina. E Dominique Fortier, in Le città di carta, rispetta i bordi inquieti della sua personalità e ce la racconta dopo averla incontrata «nella casa delle sue poesie» o, in altre parole, nella sua città di carta.

 

(Dominique Fortier, Le città di carta, Alter Ego, 2020, 192 pp., euro 16, articolo di Francesca Gosi)

 

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