Calcio e identità italiana

“Azzurri” di Paolo Colombo e Gioachino Lanotte

di / 3 giugno 2021

Copertina di Azzurri

Io non mi sento italiano è notoriamente l’ultimo album di Giorgio Gaber, che nell’omonima canzone arriva all’impudenza di dire che non sente alcuna appartenenza. Uscì nel 2003, poco dopo la sua morte, nell’epoca in cui il presidente della Repubblica Ciampi dedicava grandi energie al rafforzamento del senso di orgoglio nazionale e al recupero dei simboli dell’italianità, nei confronti dei quali il cantautore milanese non lesinava un ironico e rispettoso scetticismo. Come mille altre volte, alcune sere fa davanti alla tv mi è capitato di domandarmi: Chissà cosa direbbe Gaber se fosse ancora vivo! In prima serata su Rai Uno la Notte azzurra, condotta da Amadeus e dedicata alla nazionale italiana di calcio in vista degli Europei, si era trascinata tra sketch comici, canti e balli improbabili, momenti trash, buoni sentimenti e dichiarazioni in favore dell’ambiente e del riscatto postpandemico che riportavano alla memoria le care e vecchie interviste alle concorrenti di Miss Italia.

Poi, il gran finale: calciatori, allenatore e staff tecnico davano la buonanotte agli italiani sgolandosi in una versione impetuosa e tripudiante dell’Inno di Mameli, quello di cui G.G. un po’ si vergognava. «In quanto ai calciatori / non voglio giudicare / i nostri non lo sanno / o hanno più pudore», rimava a proposito del Canto degli italiani, che i nostri giocatori non si erano mai sognati di intonare fino agli anni Novanta, tanto meno in una notte di gala e trash in diretta tv.
Impossibile, forse, immaginare davvero cosa avrebbe detto Gaber dinanzi a una simile esibizione (altro che pudore!), tante cose sono accadute negli ultimi 18 anni in questo paese bizzarro e stanco. Certo, pensando all’attuale ascesa di un partito di estrema destra che nel nome richiama apertamente l’inno nazionale ho avuto la tentazione di proseguire il ragionamento con la strofa successiva: «Mi scusi presidente / ma ho in mente il fanatismo / delle camicie nere / al tempo del fascismo». Le cose, però, sono “un po’ più complesse”.

Anzi, «quando si ha a che fare con il senso d’identità degli italiani, le cose sono sempre un po’ più complicate». Troviamo queste parole in Azzurri. Storie della nazionale e identità italiana (UTET, 2021), appena pubblicato dagli storici Paolo Colombo e Gioachino Lanotte. Un libro che raggiunge felicemente l’obiettivo di raccontare gli incroci fra nazionale di calcio e identità italiana in modo non banale e di offrire uno sguardo storico a tutto tondo attraverso le lenti dello sport più amato nel nostro paese (e in cui troviamo ampie riflessioni proprio sul ruolo dell’Inno di Mameli nelle vicende italiane, sia politiche che calcistiche).

L’italianità, per Colombo e Lanotte, assume i contorni che conosciamo – o ci illudiamo di conoscere – «nell’intreccio fra persistenti sentimenti campanilistici ed effimero amor di patria, nella granitica volontà di perseguire gli interessi personali invece che il bene pubblico, nell’esaltazione della fantasia creativa associata a un’apparente irrinunciabile pigrizia, nel pendolo che oscilla fra slanci entusiastici e passivo fatalismo, nella propensione a una stizzita autodifesa priva di orgoglio radicato», tutti temi che risaltano di una luce particolare e assai emblematica nella storia più che secolare della maglia azzurra.

Se ne traggono conferme in ogni epoca, dal fascismo alla democrazia, dalla Prima alla Seconda Repubblica, dal miracolo economico a Tangentopoli, dal Sessantotto agli anni di piombo, al riflusso degli anni Ottanta; dai due mondiali di mister Vittorio Pozzo negli anni Trenta al disastro con la Corea del Nord, dalle polemiche di Rivera all’urlo di Tardelli, da Gigi Riva a Roberto Baggio passando per Paolo Rossi, da Zoff a Buffon, da un’Italia-Germania gloriosa a un’altra. Visti in quest’ottica e con gli occhi di chi è storico di professione, gli elementi tipici del “carattere italiano” e della sua costruzione emergono nella loro spesso contradditoria essenza, depurati da quella patina di luoghi comuni e aforismi ammiccanti che ormai da decenni si portano dietro le riflessioni sul tema. È forse uno dei meriti più grandi degli autori, ma certo non l’unico.

Perché Azzurri è soprattutto un mosaico variegato di episodi e riflessioni, di tendenze e discontinuità storico-calcistiche: non un’opera esaustiva e sistematica ma una lettura che arricchisce e appassiona, un punto di riferimento destinato a durare. Nel capitolo sull’epoca fascista, per esempio, il racconto del rinnovamento delle strutture sportive e l’edificazione di nuovi stadi, che culminerà con la Coppa del mondo “italiana” del ’34, diviene punto di osservazione ideale sull’uso propagandistico dello sport da parte del regime.

Nonostante gli innegabili sforzi in termini di strutture e i trionfi della nazionale guidata da Vittorio Pozzo in panchina e Meazza, Piola e Ferrari in campo, il tentativo fascista di nazionalizzare il mondo pallone finì per scatenare una paradossale reviviscenza delle identità calcistiche locali, una sorta di resistenza culturale sottotraccia. Allo stesso modo, in un altro capitolo le notti magiche di un nuovo Mondiale italiano, ovviamente nel ’90, divengono una sorta di canto del cigno della Prima repubblica, in cui lo spirito edonistico degli anni Ottanta e le “truppe d’appalto” tipiche del nostro modello di «sviluppo non governato» (Crainz) celebrano l’ultimo trionfo, tanto effimero e illusorio quanto il destino di stadi realizzati per l’occasione quali il San Nicola di Bari e il Delle Alpi di Torino.

Protagonista dei capitoli centrali, dal taglio maggiormente “verticale”, è invece il rapporto tra calcio e cultura popolare. Il pallone ha toccato, e molto spesso segnato, l’evoluzione e l’impatto sulla società di radio, tv, giornalismo, letteratura, cinema, musica, contribuendo a rielaborare, se non l’identità, almeno la mentalità (e la lingua) italiana– come dimostra la sorprendente e ricchissima rassegna proposta nelle pagine di Azzurri.

La terza parte si concentra più direttamente sul senso dell’italianità, in particolare attraverso il filtro di tre opposizioni dialettiche: patriottismo-campanilismo, italiani-stranieri, vittoria-sconfitta. Davvero fulminanti alcune delle intuizioni sulla scorta di quest’ultimo doppio binario: se Silvio Berlusconi diviene perfetto rappresentante degli «atteggiamenti italiani in caso di débacle: autocentrato, autocommiserante, tutt’altro che consolatorio ma pur sempre saldo nell’assimilare tra loro Paese reale, immagine ideale e nazionale calcistica», il «Paolo Rossi capocannoniere dell’Italia vittoriosa nel 1982 è un perfetto emblema della nostra identità nella vittoria»: mingherlino, reduce del calcioscommesse e quindi mal visto da molti, «deperito, sciupato, bersagliato dalla stampa specialistica e inseguito da maldicenze di ogni tipo… E poi, il trionfo. Non crediamo ci sarà mai un simbolo tanto denso e potente della nostra capacità di perenne rinascita dalla miseria».

Immersi nell’opera di Colombo e Lanotte sembrerebbe quasi di poter leggere nei dualismi il vero motore della storia italiana – calcistica e tout-court , come la staffetta Rivera-Mazzola nell’indimenticabile spedizione azzurra a Messico ’70 mette in scena in maniera paradigmatica. Ma allora in cosa consiste l’italianità? Riflettendo sulla tesi degli autori secondo cui riusciamo a essere «intimamente, veracemente, originalmente italiani» nelle grandi vittorie e nelle grandi sconfitte, ma non «nel pareggio, cioè nella normalità, nella ricorrenza più scontata della quotidianità» vien da pensare che l’identità italiana sia davvero una media di Trilussa fra autodenigrazione e retorica a buon mercato. Un popolo senza vie di mezzo, per fortuna o purtroppo. Vinceremo dunque gli Europei, oppure faremo schifo?

 

(Paolo Colombo e Gioachino Lanotte, Azzurri. Storia della nazionale e identità italiana, UTET, Milano 2020, 336 pp. + 16 a colori, euro 19. Articolo di Paolo Ortelli)

 

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