L’alienazione del lavoro dalla catena di montaggio alla precarietà

“La commedia umana del lavoro” di Danièle Linhart

di / 21 giugno 2021

La commedia umana del lavoro di Linhart

In La commedia umana del lavoro (Mimesis, 2021) la sociologa francese Danièle Linhart riflette sui rapporti tra il lavoratore e le trasformazioni nell’organizzazione del lavoro intercorse fra gli anni del taylor-fordismo (a cavallo del Novecento) e quelli del postfordismo (dagli anni Ottanta a oggi). Se il taylor-fordismo si basava su una frammentazione, razionalizzazione e ripetizione dei processi produttivi all’interno della fabbrica, culminando nella logica e nella pratica della catena di montaggio, il postfordismo adotta tecnologie e criteri manageriali tali da valorizzare la specializzazione, la qualificazione e la flessibilità dei lavoratori per una produzione meno massificata e indistinta, tagliata sulla diversificazione dei consumi e concentrata sui servizi. Così almeno nelle classiche categorie della sociologia del lavoro; ma Danièle Linhart va oltre questa distinzione da manuale.

L’opera è suddivisa in tre parti. La prima ci racconta delle esperienze dirette dell’autrice ai convegni di varie istituzioni economiche e sociali francesi, inette di fronte alle problematiche dell’integrazione dei lavoratori nell’impresa postfordista. La seconda espone le dinamiche fisiche e i meccanismi di pensiero della vecchia impresa fordista e le differenze rispetto a oggi. La terza parte, infine, rivela come, dietro le rivoluzioni produttive e organizzative, quella del lavoratore continui a essere una condizione di alienazione. Ed è questa la tesi di fondo del libro.

Linhart smaschera il senso comune che vuole l’epoca fordista caratterizzata dalla disumanizzazione del lavoro e al contrario vede nella successiva società dei servizi una valorizzazione dell’uomo, addirittura una “super-umanizzazione”. In questa visione il lavoratore non sarebbe più l’anello della catena di montaggio con bassi livelli di istruzione, ma opererebbe dietro una scrivania vantando discreti titoli di studio, e di conseguenza avrebbe un certo grado di autonomia, che il datore di lavoro gli concederebbe seppure in un rapporto di dipendenza. La realtà è ben diversa. Con la perdita del posto fisso e l’avvento della flessibilità, il lavoratore si trova implicato in situazioni lavorative sempre più mutevoli e complesse, come in un videogame in cui a ogni livello si affrontano “mostri” sempre più difficili da combattere.

In una situazione del genere, anche la tanto esaltata “conoscenza” che sta dietro un titolo di studio perde potere, e diviene al limite irrilevante, se è vero che “certe cose” non si possono imparare a scuola. Il mito della nuova epoca, portato avanti dalle classi dominanti e dalla retorica manageriale, è quello della vitalità giovanile, la più adatta ai cambiamenti martellanti del postfordismo. Ma sono proprio i giovani le prime vittime di tale sistema. Scaraventati in mansioni inadeguate alla propria esperienza, sono costretti a segnare il passo. La cosa peggiore della precarietà, per Linhart, non è tanto il rischio di perdere il lavoro in sé, quanto la necessità di sottoporsi continuamente al giudizio altrui. Nella società della valutazione, l’individuo, se non riesce a adattarsi di continuo, sarà sempre condannato a non sentirsi all’altezza, quindi degradato umanamente.

Il libro passa in rassegna diverse esperienze, che confermano tutte la tesi di Linhart: dai medici agli impiegati, ai dipendenti del commercio (su tutti McDonald’s). In realtà questa situazione non nasce dal nulla. La catena di montaggio di Henry Ford privava il lavoratore delle sue qualità e delle sue esperienze rendendolo un anonimo ingranaggio di un circuito più ampio, fatto di macchine. Già allora si parlava di “fordite”, oggi più comunemente stress. E non stress fisico, ma soprattutto psichico. E già allora tempo di vita e tempo di lavoro diventavano una cosa sola, anche per colpa dei “dipartimenti di sociologia” che l’industriale americano creava appositamente allo scopo ultimo di verificare che l’operaio rispettasse tutte le premesse fisiche e morali dell’efficientismo in fabbrica.

La commedia umana del lavoro, però, smaschera pure un’altra menzogna: non è l’individualismo il motore del capitalismo. Sarà un caso, ma Henry Ford era esplicitamente ammirato da Hitler. E le sue catene di montaggio ispirarono l’Unione Sovietica, dove furono applicate degenerando nello stachanovismo. Che si parli di Ford, Hitler, Stalin – o Bezos e Zuckerberg – l’organizzazione capitalistica del lavoro proietta sempre, in qualche misura, in un totalitarismo orwelliano. Certo, con diverse sfumature, ma è identico il principio di oppressione e alienazione. Anche per questo il libro di Danièle Linhart è una lettura consigliatissima.

 

(Danièle Linhart, La commedia umana del lavoro. Dal taylorismo al management neoliberale, traduzione di Ginevra Scarcia, postfazione di Enrico Donaggio, Mimesis, 2021, 166 pp., euro 14,  articolo di Francesco Nesti)
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