Lo sguardo di Vollmann dopo quello di Parise

Povertà e guerra in due reportage

di / 3 marzo 2022

copertina di I Poveri di Vollmann

È l’agosto del 1968 quando Goffredo Parise racconta sulle pagine del “Corriere della Sera” la fame del Biafra. A colpire la sua attenzione nell’ospedale di un campo profughi è un bambino di due anni, con il corpo così gonfio da prevederne la fine: seduto in un lettino sta formando delle palline di farina di yam, che saranno il suo pasto. Parise lo osserva a lungo e ne descrive i gesti, lenti, composti, imparati da poco, ma già corrotti dalla fame. È solo la presenza della madre, una ragazza, a interrompere la scena: seduta accanto a suo figlio, non ha occhi che per il cibo: sperando di non essere vista, lo ruba, mangiandolo voracemente: il bambino si ritrae, indifferente, come se quel pasto fosse, ormai, del tutto superfluo; consapevole che la salvezza non esiste e che, se esistesse, non si troverebbe in quel letto.

La cronaca che ne fa Parise è asciutta, limpida, priva di commenti morali. La povertà raccontata dallo scrittore vicentino in Biafra è una creatura immobile, nuda e straordinariamente cosciente. I corpi di uomini, donne e bambini, piegati dalla fame vagano senza meta e senza parole: Parise si sofferma a lungo sul loro sguardo, stanco, rassegnato: «uno sguardo non triste, non disperato, non affamato, non impaurito, bensì calmo e quasi sereno, distaccato, contemplativo: della totale e definitiva intelligenza delle cose di questo mondo, della perfetta coscienza della solitudine e del dolore dell’uomo». (Guerre politiche, Adelphi, 2007).Ciò che resta, incancellabile in chi legge anche a distanza di cinquant’anni, è una disperazione immensa, concreta, più reale e crudele di qualsiasi fotografia.

Perché, come ci ha insegnato Susan Sontag, le immagini hanno un grande potere, ma non sono in grado di farci comprendere del tutto il dolore del mondo, o almeno non quanto la scrittura.

È questa la premessa da cui partire per leggere I poveri dell’autore americano William T. Vollmann (minimum fax, 2020, traduzione di Cristiana Mennella). Sembrerebbe un paradosso, considerato che l’opera si conclude con una corposa appendice fotografica e che si senta il bisogno continuo, quasi ossessivo, di andarla a sfogliare per scrutare i volti delle persone ritratte dallo stesso Vollmann, cercando di individuare i segni ostensivi della povertà. Non solo per riconoscerli nelle vite altrui, ma soprattutto per il timore di ritrovarne traccia nei nostri corpi: un altro paradosso se si pensa con quanta indifferente tenacia evitiamo ogni giorno di incrociare quelle stesse tracce.

La povertà custodisce dei segni premonitori? È solo una delle tante domande complesse, imbarazzate e colpevoli, che saremo costretti ad affrontare leggendo questo libro, spesso senza ottenere risposte convincenti o, al contrario, con risposte talmente logiche da avere la certezza che non ci sia più niente da comprendere.

Io sono povero? È la prima domanda che ci poniamo di fronte a un titolo così esplicito. Vollmann conosce le nostre riprovevoli debolezze (perché sono anche le sue), e toglie ogni dubbio nell’introduzione, riportando la tabella delle entrate giornaliere delle persone intervistate in questi reportage. Ma forse non basta, perché il tarlo della povertà si è già insinuato in noi: il dato economico perde il suo valore assoluto e non ci rassicura abbastanza. Il lavoro e il denaro, infatti, non sono condizioni del tutto sufficienti ad allontanare lo spettro della povertà. Ed è esattamente qui che lo scrittore americano vuole condurci: essere poveri significa anche averne consapevolezza? E cosa accade se chi è povero non ne è cosciente?

Dallo Yemen al Messico, dall’Afghanistan agli Stati Uniti, dal Giappone alla Colombia: ovunque la domanda che Vollmann rivolge a ognuno di loro è sempre la stessa: «Perché sei povero? Perché i poveri sono poveri?». È destino, risponde qualcuno; «Non lo so», dice Oksana, 81 anni, intervistata in Russia del 2005. «Forse a un certo punto abbiamo sbagliato qualcosa. Non siamo il genere di persone abituate a chiedere l’elemosina, la corrente della vita ci ha semplicemente portati qui». La rassegnazione è uno degli elementi che contraddistingue la povertà, o almeno è ciò su cui riflette lo stesso Vollmann. Lui sa benissimo che chi è povero non lo è per un capriccio del destino (che pure esiste: e da buon americano ne è quasi ossessionato), ma perché schiacciato dalle forze economiche, dimenticato dalle politiche sociali e vittima di una disuguaglianza tanto radicata da essere ormai accettata a ogni latitudine. Il punto è se chi è povero sa di esserlo. E se è in grado di raccontarlo, di ricostruire la sua storia, gli eventi che lo hanno portato dove si trova. Ma raccontare è un privilegio, ci dice Vollmann; persino ricordare è un lusso che chi vive nella miseria non può permettersi di avere. I poveri mentono (esattamente come i ricchi): a volte le loro storie sono piene di buchi, di incongruenze, di false piste: alcune delle persone intervistate hanno creato una finta memoria da tirare fuori all’occorrenza, talvolta per impietosire, per sedurre, per rendere più accettabile agli occhi altrui il loro dolore, per essere viste e ricordate.

«Un mendicante deve innanzitutto seguire con insistenza e intercettare i ricchi, con discrezione o in maniera aggressiva, in modo da farsi notare»: persino la povertà è costretta a seguire le leggi del marketing.

Essere invisibili è una salvezza o una condanna? Si chiede Vollmann, visitando l’Afghanistan nel 2000 e interrogandosi sul ruolo della donna solo un anno prima dell’11 settembre. E oggi, di fronte ai manichini femminili decapitati per ordine dei talebani, l’eco di questa domanda sembra perdersi nel vuoto.

Così come si sono perse nel vuoto le storie laceranti raccolte nello stesso anno in Kazakistan, Paese sconosciuto alla maggior parte del mondo occidentale e benestante. Se non fosse per le rivolte sanguinose di inizio anno, sarebbe solo uno dei tanti territori dell’ex Unione Sovietica di cui non si conoscono né i confini né le abitudini. Lo sa bene anche Vollmann che nel suo capitolo dedicato alle persone del «nono paese più grande al mondo», parte dagli Stati Uniti, dall’aumento del prezzo della benzina nella sua provincia, per poi ritrovarsi ad Atyrau, una delle più importanti città petrolifere kazake, in cui uomini, donne e bambini sono costretti a barattare la loro salute con la possibilità di vivere.

Ma la povertà non è altrove, ci ricorda lo scrittore americano negli ultimi tre capitoli: è qui, lungo la strada, dietro la porta di casa, tra le persone che dormono nel parcheggio, in un fatiscente palazzo di New York.

E se Parise aveva il difficile compito di portare la fame e le guerre nelle nostre case, Vollmann sembra compiere, invece, un movimento dialettico e costante (quasi hegeliano, se non fosse che lui stesso si dichiara marxista, pur rifiutandone alcuni aspetti) di avvicinamento e allontanamento dalla povertà.

Alla fine di questo lungo e potente viaggio, profondamente “politico” – aggettivo che forse non avrebbe convinto del tutto Parise – non ricorderemo nessuno dei ritratti in bianco e nero che pure abbiamo scrutato a lungo. Ricorderemo, invece, la storia del senzatetto giapponese assoldato dalla criminalità locale per essere un finto sposo in un finto matrimonio, e così permettere a una bella ragazza di ottenere il visto: una doccia, un vestito nuovo, il sorriso immortalato in uno scatto lo hanno trasformato per un attimo infinito in un marito felice. Non ha più rivisto la sua sposa, ma conserva ancora la foto di quel giorno.

«Io e te siamo ricchi. Gli altri sono poveri», ci dice Vollmann, «qualunque sia la conoscenza della povertà racchiusa in questo libro, la loro sarà senz’altro più autentica, più profonda, sebbene meno estesa».

Dal canto suo Parise ci ricorda che l’ingiustizia appartiene a tutte le guerre, che l’«orrore» possiede molte forme, ed è inscindibile dal «dubbio». «Il mio impegno, quando pensavo di essere impegnato, era questo: credere fermamente che, con le mie parole scritte, avrei informato e forse coinvolto nella sorte di alcuni ragazzi di quindici sedici anni, mandati a fare la guerra e disperatamente morti, alcuni lettori».

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