Perché Raymond Chandler detestava Alfred Hitchcock

Quando i due litigarono per colpa di Patricia Highsmith

di / 14 aprile 2022

locandina di Strangers on a Train

Nel dicembre 1950, Alfred Hitchcock riceve una lettera dal contenuto feroce e spietato, firmata in calce da Raymond Chandler. Pochi mesi prima, i due avevano collaborato alla produzione del film Strangers on a Train (L’altro uomo), tratto dall’omonimo romanzo di Patricia Highsmith. Hitchcock aveva ingaggiato lo scrittore per redigere la sceneggiatura del film. Tuttavia, i primi incontri degenerarono nella contesa fra le rispettive prerogative artistiche, e non passò molto prima che l’insofferenza reciproca provocasse insulti e risentimenti personali. Pare che un giorno Chandler abbia detto di Hitchcock: «Guarda quel ciccione bastardo che cerca di uscire dalla macchina».

Non essendoci più alcun margine di intesa, il regista congedò Chandler, che rimase comunque accreditato come sceneggiatore. Strangers on a Train conobbe poi un notevole successo di critica, che vi rintracciò tutti gli archetipi del cinema hitchcockiano: il mistero, l’ambiguità, la manipolazione del tempo, le carrellate. D’altronde, come lo stesso Hitchcock confessò a Truffaut nel corso delle conversazioni intrattenute nell’agosto 1962, aveva scelto il romanzo della Highsmith in quanto «era materiale che faceva per me». Il successo del film spianò oltretutto la strada alla carriera della scrittrice, fino a quel momento sconosciuta.

Indagando la biografia della madre di Mr Ripley, emergono gli elementi che non solo hanno ispirato i suoi racconti, ma che hanno perfino aperto una breccia nel misterioso e inquietante universo di Hitchcock. Nel maggio 1948, all’età di 27 anni, Patricia Highsmith venne ammessa alla colonia di artisti Yaddo”. Qui vi trovò una comunità di uomini e donne dediti a eccessi di ogni tipo, e non fece alcuna fatica a integrarsi.

L’aspirante scrittrice aveva alle spalle una gioventù tormentata dall’abuso di alcol, dall’irrequietezza sessuale che aveva compromesso decine di rapporti con altre donne, e soprattutto dall’ambiguo rapporto con la madre. Verso di lei era capace di un amore morboso, ma anche di un feroce odio fomentato dall’invidia. Dalla sua corrispondenza privata sappiamo dei molti episodi di violenza e di altri aneddoti oscuri. Un giorno, la madre scherzò sul fatto che Patricia apprezzasse l’odore della trementina, di cui aveva abusato quando era incinta allo scopo di abortire.

Più tardi, la Highsmith scrisse un racconto in cui la protagonista uccide compiaciuta la madre pugnalandola con un paio di forbici. Un aspetto questo che ci concede l’impropria suggestione di accostarla a Norman Bates in Psyco, specie se si considerano anche gli eccessi architettonici della residenza Yaddo, costruita in stile Regina Anna e sovraccaricata in seguito di elementi gotici che ricordano proprio la casa dei Bates. Se Yaddo era il luogo ideale per stimolare la creatività degli ospiti, ciò che accadde nell’estate del ’48 non poté che provocare in lei una più feroce espressione artistica dei suoi tormenti.

Lì intrattenne una relazione eterosessuale che le procurò la spiacevole sensazione di «avere come della lana d’acciaio in faccia. Un movimento intestinale provocato dall’essere violentati nel posto sbagliato». Pensò così di andare in analisi dalla dottoressa Lipshutz, fiduciosa di poter risolvere le inclinazioni devianti per salvaguardare gli ideali di legge, ordine, patriottismo, religione e famiglia sicura. La Lipshutz disse che la scelta della scrittrice di sottoporsi alla terapia era dovuta al bisogno di legarsi in una relazione convenzionale con un uomo.

E ancora, che ella fosse incapace di instaurare un rapporto a lungo termine con le donne perché, in fondo, le odiava tutte. Tuttavia, dall’ingente mole di lettere e diari passati in rassegna dagli studiosi – alcuni dei quali ripubblicati di recente – non emerge affatto l’intenzione di volersi “curare” dall’omosessualità. Piuttosto, sembrava divertita all’idea di potersi prendere gioco della psicoterapeuta, come quando accettò di unirsi a un gruppo di altre tre pazienti omosessuali, salvo poi confidare a un’amica: «Mi divertirò a sedurre un paio di loro». Insomma, le sedute di analisi erano forse l’occasione per sbirciare fra gli standard di normalità condivisi nella società americana. Gli stessi che stava usando come contraltare nella bozza di Strangers on a Train scritta proprio nel corso quell’estate.

La Highsmith aveva concepito l’opera sulla scorta delle esperienze che l’hanno indotta a manovrare la doppia identità tanto nella vita quanto nei suoi romanzi. L’intero romanzo si impernia sul tema del doppio tanto caro a Hitchcock, che ha fatto dell’ambiguità un veicolo di ironia e inquietudine. I due protagonisti convergono infatti in un’unità psicopatologica generatasi al momento dello scambio delle vittime.

 

 

Era chiaro che l’opera non si prestasse facilmente all’adattamento cinematografico. Convertirla in sceneggiatura era un’operazione delicata che richiedeva una sola mente, una sola prerogativa, che non era però quella di Chandler. Come avrebbe ammesso lo stesso Truffaut: «Se avessi letto la sceneggiatura, non mi sarebbe piaciuta. Bisogna veramente vedere il film. Credo che se qualcun altro avesse filmato la stessa sceneggiatura non ne sarebbe uscito niente di buono».

Quando Hitchcock ingaggiò lo scrittore, era consapevole di «non riuscire a lavorare bene quando collaboro con uno scrittore specializzato come me nel mistero, nel thriller o nella suspense». Il regista ricorda così i loro incontri: «Ero seduto accanto a lui, cercavo di trovare un’idea e gli dicevo “Perché non fare così?” Rispondeva “Ebbene, se lei trova le soluzioni perché ha bisogno di me?”». Nella lettera recapitata a Hitchcock, il padre di Philip Marlowe insiste nell’offensiva contro Hollywood lanciata nel 1945 con l’articolo Writers in Hollywood apparso sull’Atlantic Magazine.

Così scrive a Hitchcock: «Il tuo comportamento sembra far parte dello standard di disonestà di Hollywood. Non riesco a capire perché hai permesso che una sceneggiatura con una certa vitalità e un certo brio, venisse ridotta a una tale flaccida massa di cliché. Un gruppo di personaggi anonimi e dialoghi appartenenti al genere che a ogni sceneggiatore è stato insegnato di non scrivere». Così aveva scritto cinque anni prima: «A Hollywood, ai pochi scrittori di talento viene impedito di esprimersi. Prevale il principio per cui essendo loro scrittori non possono caprine nulla di immagini, e perciò occorre un produttore che dica loro come fare».

Al tempo della lite, Hitchcock non godeva ancora dello status di canone cinematografico. La sua reputazione aveva un ingombro internazionale notevole, resisteva all’onda d’urto delle critiche e si accresceva ogni qualvolta si esibiva in prodezze tecniche e stilistiche. Tuttavia, non aveva ancora iniziato a far scuola: doveva ancora arrivare il tempo in cui Truffaut si impuntava a patrocinarne l’opera omnia. Di contro, Chandler poteva invece avvalersi del potere conferito a chi è riuscito nell’intento di reinventare un genere letterario. O in altre parole, a imporsi come canone.

Non sarebbe improprio collocare nel 1939, data di pubblicazione de Il grande sonno, l’anno zero della narrativa poliziesca. Prima di lui, per quanto «lucide e solide» fossero le trame, restavano comunque sprovviste di «personaggi vivaci, di un dialogo brillante, del senso del ritmo o della profondità psicologica». Per quanto «vivace e colorita» fosse la prosa, «mai una volta che si addossasse la massacrante fatica di smontare un alibi a prova di bomba». Lo strapotere di Chandler deriva non tanto dal suo stile, ma dalla consapevolezza di averne dato uno a un genere che non l’aveva mai avuto.

Curioso come la dinamica di questo scontro fra Maestri sveli un maggior numero di aspetti tra loro in comune rispetto alle differenze che vorrebbero spiegarne l’idiosincrasia. Come Hitchcock, Chandler aveva il feticcio delle regole. Solo che lui non si limitava a rispettarle, piuttosto sentiva il bisogno di enunciarle per educare i suoi colleghi al solo modo di rispettare un genere spesso snobbato. Lo ha fatto sulle pagine dell’Atlantic nel 1944, nell’articolo intitolato La semplice arte del delitto, poi ampliato nel 1950 con la raccomandazione per cui «la storia ideale è quella che leggereste anche se mancasse la fine».

Gli va poi riconosciuto il merito di aver sposato una causa senza tempo, quella dell’evasività. La critica di oggi come quella di ieri insiste sul voler distinguere la letteratura d’evasione offerta dai generi d’intrattenimento, da quella d’espressione, di competenza esclusiva delle sublimi vette della letteratura derivate da Shakespeare e Dante. Ecco cosa pensava Chandler a questo proposito: «Quanto a letteratura d’espressione e a letteratura d’evasione, si tratta di terminologia critica, un usare parole astratte come se avessero un valore concreto. Se una cosa è scritta con vitalità esprime vitalità; non esistono argomenti poco fecondi, esistono purtroppo, cervelli poco fertili».

Questa terminologia critica ha contaminato anche il cinema fin dalla sua nascita. Hitchcock è divenuto un canone dell’immagine-movimento e intere generazioni di registi si sono misurati con l’espressività dei suoi oggetti e delle sue ambientazioni. Chandler ha però dovuto compiere uno sforzo che la tradizione ancora oggi fatica a comprendere, in quanto dedita a misurare a mezzo di indici sociologici l’autorialità e la finalità morale dell’offerta artistica. Il rischio è però quello di perdere l’occasione di esporsi allo stile unico e sbalorditivo che ha reso canonici romanzi come Il lungo addio, Addio mia amata o Il grande sonno.

Chandler e Hitchcock non sono che due sconosciuti sul treno della tradizione, ma che differentemente dagli “stranger” della Highsmith, non potrebbero mai fondersi in un unico genio. In fondo, parole e immagini generano una realtà solo se lavorate da una mente ispirata, e la realtà che ne deriva è tanto più seducente quanto più grande è il genio che la ispira. Ma si tratta pur sempre di materie prime molto diverse, che richiedono diverse conoscenze e metodi di lavorazione. Non c’è da stupirsi dunque, se fin dal principio, il cinema sia divenuto un caldo terreno di scontro fra i poeti dell’immagine e gli artigiani della parola.

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