Ezio Sinigaglia: lo stile (de)forma il mondo

A proposito di “Fifty-fifty”

di / 6 giugno 2022

Copertina di Fifty-fifty. Sant'Aram nel Regno di Marte

«Sciofí è il più bel ragazzo che ho toccato, Fifí il più bello che non ho toccato», afferma – al culmine delle sue meditazioni – Aram, detto Warum, il protagonista di Fifty-fifty, il dittico di romanzi di Ezio Sinigaglia (composto da Warum e le avventure Conerotiche e Sant’Aram nel Regno di Marte) edito da TerraRossa Edizioni tra il 2021 e il 2022. È una frase – o meglio una sentenza, ma anche un’epifania e un lamento – che racchiude i tanti cuori concettuali dell’opera: la bellezza fisica, qui raccontata nella sua essenza di polo attrattivo e destabilizzante; il conflitto tra fatto e non fatto, compiuto e incompiuto, pieno e vuoto, l’opposizione pura insita cioè nel numero due, tanto rilevante nei romanzi; la lingua arguta e giocosa, col suo costante botta e risposta e i suoi contrappunti. Quello di Fifty-fifty è un mondo dai tratti farseschi, realistico nel suo essere grottesco e viceversa. Non a caso nella narrazione sono due le forze – sarebbe meglio dire i sentimenti, ma qui siamo più che altro nel campo delle energie – che fungono da filtro e da chiave interpretativa: da un lato il desiderio, dall’altro la nostalgia (da non confondere con la meno partecipativa memoria) plasmano, distorcendolo, il mondo ideato da Sinigaglia, ogni parola che questi sceglie. Desiderio e nostalgia si percepiscono ma sono inconoscibili, assomigliano soprattutto a delle divinità: lo scrittore, al loro servizio, non può far altro che dar vita a un suo peculiare universo letterario – nel tentativo, ardito, di assecondarle.

Entrambi i romanzi si chiudono con un gioco linguistico al centro della scena: nel primo caso si tratta di un componimento apocrifo, una parodia dell’ottava rima cavalleresca, composto da Aram per ingannare un rivale in amore, un presuntuoso barone universitario (in una caustica presa in giro della gravità del mondo accademico, del tutto fuori luogo nell’universo di Fifty-fifty); nel secondo caso di un indovinello ideato da Fifí, che viene sviscerato dal protagonista come fosse un enigma esistenziale, da Sfinge, e sembra in fondo riassumere molto del senso (o dei sensi, qui il singolare non esiste) della storia. Questi due espedienti, adottati non a caso sul finale, testimoniano la materia prima con cui Sinigaglia ha modellato il suo universo: un linguaggio a più strati, doppio o triplo o quadruplo, che ricorda e brama, che domina e che a tratti è traboccante. Il linguaggio – ma potremmo anche dire lo stile – è il cuore pulsante dell’opera proprio in virtù della sua unicità: Raymond Carver in Il mestiere di scrivere spiegava che un grande scrittore lascia «una firma inconfondibile e unica» su «qualsiasi cosa scriva»; è precisamente quello che accade con Sinigaglia. Lo stile pirotecnico, festoso quanto malinconico di Fifty-fifty conferisce prima di tutto coerenza, unità, è il collante di tutte le storie. Verrebbe da paragonarlo all’anima (che probabilmente è qualcosa che riguarda soprattutto la forma, piuttosto che il contenuto), ma in fondo non stiamo parlando d’altro che di testo, in latino textus e cioè tessuto, qualcosa che è legato insieme indissolubilmente. Quello di Sinigaglia è infatti un oggetto puramente testuale, letterario, con alla base un’immagine letteraria anch’essa, tanto cara al modernismo: il linguaggio al centro del mondo.

Il protagonista Aram/Warum (primo di mille nomi parlanti: Warum in tedesco significa “perché”) appare come un narratore cerebrale e ingombrante, un universo intero lui stesso: è innamorato follemente di un ragazzo che ricambia questo amore, sì, ma solo da un punto di vista affettivo, mai corporale. Il suo nome, Fifí, da Fifty-fifty, significa proprio questo: cinquanta e cinquanta, un po’ sì e un po’ no. Un’esitante dicotomia. Per tutto il primo romanzo infatti Aram e Fifí si amano ma quest’ultimo non gli si concede se non in modi laterali, a metà: al massimo i due si scambiano un bacetto sulla guancia o dormono insieme. Niente di più. Questa dinamica trova il suo massimo compimento (o meglio, non-compimento) nei giorni che i due passano insieme al Conero, che sono praticamente una luna di miele non consumata. E così sono più di tre anni che Aram non fa l’amore, e a ogni ora crescono la sua bramosia e il suo struggimento – in parallelo, ovviamente, all’amore. A dominare questo primo romanzo è appunto il desiderio, raccontato nella forma che più lo esalta: l’infinita assenza di attuazione, in altre parole la frustrazione. Nel secondo romanzo, però, ecco il rovesciamento, con l’intervento decisivo ma illusorio della nostalgia: nella casa in Versilia in cui Aram e Fifí sono ospiti (di preciso in una casta mansarda dove non celebrano il loro amore), compare un misterioso e bellissimo idraulico: si scoprirà essere l’amante di Aram durante i giorni esaltanti e carnevaleschi del servizio militare. Da qui i nuovi tentennamenti di Aram e la gelosia di Fifí, che soprannominerà il rivale, con parecchia malizia, Sciaquí.

Copertina di Fifty-fifty. Warum e le avventure Conerotiche

Warum, Fifí, Sciofí, e poi Stocky, gli Smokecocks, Zigghe-Zagghe… tutti nomi parlanti, appunto, nomi che sono emblemi o insulti, che rivelano o nascondono, e non possono che brillare in un mondo governato dal linguaggio. Accanto al triangolo dei protagonisti si alternano così una miriade di personaggi tra i più bizzarri: Fifty-fitfy – l’ennesimo dualismo paradossale – è una storia corale, sebbene sia in realtà incentrata sull’interiorità ossessiva di un unico personaggio. Uno dei tanti giochi di prestigio dell’autore, che ha in effetti qualcosa del cartomante, del mago, perfino dell’acrobata.

L’effetto è quello di un caos a tratti frizzante, esplosivo, a tratti più stravagante e morboso: si assiste a una deformazione arzigogolata del reale (ricordate il desiderio e la nostalgia, il loro continuo filtro?), come in qualcosa a metà tra un quadro di Dalí e uno di Dürer. I personaggi sono buffi, sfaccettati, pieni di orpelli: ci sono amori duplici e senza spiegazione, corrispondenze astrali, un erotismo che è spesso bisessuale, una verità che nasconde sempre una bugia. Tutto, insomma, è in divenire (Il pantarei, non a caso, è il titolo di un altro libro dell’autore), e tutto è collegato, per comunanza ma soprattutto per opposizione.

In un contesto simile – fertile di storie dentro storie dentro storie –, il numero più importante è allora il due, la figura retorica principale è l’antitesi: alla lotta princeps tra Fifí e Sciofí (tra l’assenza e il contatto) se ne affiancano tante altre. La più lampante è quella tra le ambientazioni dei due romanzi. Nel primo Sinigaglia descrive l’universo intellettuale di cui il protagonista fa parte: è un habitat burlesco di artisti, professori, musicisti. Quello di Sinigaglia, chiaro alter ego di Aram, è un grande esercizio di amore e autoironia: questi uomini di cultura sono spesso immalinconiti, teneri, pieni di rimpianti, ma anche frivoli ed egocentrici. A imporsi per esemplarità la figura imponente e fragile di Stocky – musicista tanto geniale nella sua arte quanto ingenuo nella vita reale –, e un pezzo di Debussy che per Aram è il simbolo stesso della meraviglia e insieme della mortalità.

L’ambiente militare raccontato nel secondo romanzo, invece, è molto più allegro e vitalistico (sebbene covi sempre il dubbio che la nostalgia addolcisca i ricordi, così come il desiderio illividisce il presente). Il sottotenente Aram organizza il manipolo di soldati di cui è a capo come una società fondata sul gioco, sul rispetto, sulla dolcezza. Così, per esempio, è lui stesso a portare il caffè ai suoi uomini, al momento del risveglio; ed è ovvio che in un contesto simile si finisca per innamorarsi, nonostante i normali scontri e gli attimi di tristezza. Non manca comunque la descrizione della follia della vita militare, sottoposta a obblighi burocratici e dominata da capi ottusi: Aram – soprannominato in caserma Sant’Aram – sa però come confrontarsi col potere, riuscendo in continuazione a prendersi gioco di questo e ridicolizzandolo senza che neanche se ne renda conto.

Le questioni affrontate in Fifty-fifty, insomma, sono molteplici. Per aiutare il lettore a districarsi in questa matassa di vicende, personaggi, nomi, ambienti, e poi amori, odi, gelosie e via dicendo, Sinigaglia ricorre a quelli che all’apparenza sembrerebbero dei trucchi (non a caso prima lo si paragonava a un cartomante): un elenco dei personaggi, con relativo nomignolo e breve descrizione del carattere all’inizio dei romanzi; un riassunto con i principali avvenimenti di ogni capitolo alla fine. Eppure questi due luoghi squisitamente paratestuali diventano anch’essi degli esercizi di stile in piena regola, oltretutto svolti nella materia più bistrattata ma forse più ostica per uno scrittore: il riassunto. L’arte del riassunto.

Di nuovo il linguaggio, allora: nei riassunti iniziali e finali si rivela ancora più manifestamente il carattere giocoso dell’impasto linguistico di Sinigaglia. Fifty-fifty è dominato dall’ironia dell’autore, ma sembra più corretto parlare proprio di gioco. Il gioco linguistico, come lo chiamerebbe Wittgenstein, regna capriccioso sulle vite di tutti noi; nell’universo di Sinigaglia questo naturale processo di incomunicabilità è esacerbato fino al limite: non è la vita che diviene un gioco, è tutto un gioco che gioca con sé stesso. E dunque non si può non segnalare, per questo dittico, l’influenza di Joyce, Proust e compagnia bella. D’altronde, basti pensare al già citato Il pantarei (opera degli anni Ottanta ripubblicata sempre da TerraRossa nel 2019), in cui l’autore faceva il verso ai grandi autori modernisti novecenteschi. Ecco perché Ezio Sinigaglia si potrebbe definire un modernista contemporaneo – o, con un’espressione più in linea col suo stile, più farsesca, un modernista ritardatario.

 

(Ezio Sinigaglia, Fifty-fifty. Warum e le avventure Conerotiche, TerraRossa Edizioni, 2021, 268 pp., euro 15,90; Fifty-fifty. Sant’Aram nel Regno di Marte, TerraRossa Edizioni, 256 pp., euro 15,50. Articolo di Claudio Bello)
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