Storia infinita di Tebe contro Argo
A proposito di “La quinta generazione” di Dante Arfelli
di Carmine Madeo / 10 ottobre 2022
«L’esperienza può parlare in modo più saggio dei giovani. Perché aspiri, figliolo, alla più trista fra gli dei, l’Ambizione? No, non farlo! È ingiusta: in tante case, in tante prospere città s’intrude, e quando se ne va, ha rovinato i suoi devoti. Tu, è per lei che t’esalti. È molto meglio rendere omaggio, figlio, all’Eguaglianza, che sempre lega gli amici agli amici, alle città le città, gli alleati agli alleati: stabile principio del mondo».
Con i magnifici versi di Le fenicie, Euripide ci narra come Giocasta tenti di evitare l’imminente guerra fratricida tra i figli Eteocle, re di Tebe, e Polinice (a capo dell’esercito di Argo), che si contendono il potere e il regno. La mediazione fallisce e i due fratelli vanno incontro a un destino già scritto, trucidandosi l’un l’altro. Quello che resta è una terra devastata dal conflitto dove tutti i personaggi del dramma abbandonano la scena perché morti o esiliati. L’originaria colpa di Edipo, come quella di Agamennone nell’Orestea di Eschilo, si ripercuote sulla prole con conseguenze distruttive. Parafrasando la realtà, ciò è quanto secolarmente accaduto nella storia di tutte le guerre. Mutano gli ambienti, corre ineluttabile il tempo, si abbelliscono le idee, ma i veri vinti sono sempre le generazioni successive.
Ed è questo il tema fondante di La quinta generazione di Dante Arfelli, pubblicato per la prima volta nello sconfortante clima del Secondo dopoguerra (Rizzoli, 1951) e di recente ridato alle stampe da readerforblind. Lo scrittore romagnolo – immeritevolmente dimenticato –, reduce dallo straordinario successo di I superflui (Rizzoli, 1949 – ripubblicato, sempre da readerforblind, nel 2021), racconta qui le vite di due giovani, Claudio e Berto, cresciuti durante il Ventennio in un mai nominato borgo di pescatori, arrestati per la sola colpa di avere padri comunisti, costretti ad arruolarsi come volontari per salvare l’onore della famiglia agli occhi del regime e poi vittime dell’anomia postarmistizio e dell’ancora successivo spaesamento postbellico.
Sebbene le questioni trattate siano riconducibili alla corrente neorealista, imperante in quel periodo, l’opera se ne distacca per l’evidente désengagement: non c’è nulla da ricostruire, nulla da salvare, ogni cosa, letteratura compresa, ha perso senso e valore. Le cinque parti che compongono il testo scandiscono periodi consecutivi in cui i sogni degli attori pian piano si rivelano illusori, le loro speranze si annullano nell’edipica presa di coscienza che la caducità è incombente, che si è fragili, impotenti e inutili di fronte agli eventi. E il vuoto esistenziale non risparmia neppure le parole, perché come Elena avrà a dire a un malinconico Claudio, «la mente ci si ferma sopra come se fossero parole sconosciute. Sembra allora che quelle parole non abbiano più il significato che hanno comunemente, ma ne abbiano un altro che non si riesce ad afferrare. Come se fossero parole dette in un altro mondo, dove si sia vissuto prima di venire qui».
L’indifferenza per i sentimenti altrui che in Moravia costituiva la denuncia del decadimento della classe borghese, in Arfelli diventa resa, rassegnazione, negazione di una possibile rinascita, una disillusione più vicina all’ultimo Pavese. Ed è così che nella penombra di una capanna, una partigiana, sconvolta dalla prematura morte del fratello, definisce il male, come il disinteresse nei confronti di tutto, «fare una vita o un’altra è la stessa cosa», ed è così che Claudio nel separarsi da un giovane, detto “il toscano”, con il quale ha attraversato i boschi, pensa: «Ecco un altro che per alcuni giorni ha tenuto in mano il mio destino e che adesso non conta più niente».
Claudio accetta con arrendevolezza le separazioni definitive prima da Carla e poi da Elena, perché l’amore che provava in passato ora è sospeso nel limbo astratto e frustrante dell’incertezza, e sempre ora tutti i legami hanno quella stessa durata degli storni abbattuti dai cacciatori, nel campo di gara frequentato da Berto. L’entusiasmo delle giovani leve in partenza per il fronte si tramuta nel mutismo dei giorni che seguono l’8 settembre ’43; gli sfollati obbligati a traslocare da una campagna all’altra per sfuggire ai bombardamenti abbandonano i mobili e gli oggetti che un tempo ritenevano preziosi; Claudio che torna al suo borgo sembra il Corrado di La casa in collina: si accorge che nulla è cambiato, a parte l’assenza della torre del municipio, andata distrutta. Su questa c’era un orologio, una volta punto di riferimento per gli abitanti, che adesso si erano abituati a farne a meno.
L’antico desiderio di Marta, madre di Claudio, che si indebita e si umilia per permettere al figlio di continuare gli studi, non ottiene l’esito sperato e la sua triste vicenda appare isolata dal resto del romanzo, finisce nell’oblio, seppellita dal susseguirsi degli accadimenti. Eppure, com’è evidente in Arfelli, anche la memoria è ormai priva del suo potere identitario e salvifico e ci mostra la natura ingannevole di ricordi belli che in realtà belli non furono.
Con una prosa chiara ed essenziale, a tratti epica, con dei dialoghi che progrediscono d’intensità nei diversi tempi della storia fino a raggiungere un’estrema e tragica franchezza, di pari passo con la crescita e la maturità dei protagonisti, l’autore ci svela tutto il disagio e il senso di perenne inadeguatezza di una generazione di sbandati.
E poi, la guerra destinata a ripetersi. Come afferma Claudio nelle battute finali: «Ogni volta che un uomo nasce ritorna a vivere nello stesso modo degli altri prima di lui, ritorna a recitare la stessa commedia, con poche varianti che gli danno l’illusione del nuovo».
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