La lingua del trauma

A proposito di “La carne” di Emma Glass

di / 20 aprile 2018

Copertina di Emma Glass, La carne

Il trauma è un motore letterario potente, riviverlo e narrarlo nel corpo del testo è pratica di molti autori. Tuttavia, quando si immagina un trauma, vi sono diversi modi per riportarlo, al fine di evocarlo o di esorcizzarlo. Scrive Daniele Giglioli in Senza trauma: «Trauma era ciò di cui non si può parlare. Trauma è oggi tutto ciò di cui si parla. Da eccesso che non poteva giungere al linguaggio ad accesso privilegiato alla nominazione del mondo. Da luogo di sprofondamento a istanza di emersione, di certificazione, di autenticazione del senso. Trauma, ovvero esperienza veramente vissuta, significativa, degna di essere trasmessa,commentata condivisa. La ferita è diventata la carne».

Vi sono autori che lo trattano come un rimosso, una condizione di partenza, un buco nero attorno a cui generare la narrazione. Altri autori che lo affrontano nel processo di scrittura, che lo concepiscono come una ferita da disinfettare. E altri che lo portano a galla costantemente, lo moltiplicano nel gioco di specchi dello stile, la forma letteraria diviene diretta emanazione del trauma, l’ossessione trascende nell’artificio. Questo è il caso di Giorgio Manganelli: le complesse macchine retoriche esorcizzano il tormento delle viscere, si arrovellano sulle nevrosi freudiane dello scrittore. Nelle geometrie di Manganelli si intravede lo sberleffo di chi tenta di sfuggire, ma allo stesso tempo la volontà di aprire uno spazio privato, costruire un tempio dall’architettura impossibile in cui celebrare i proprio tabù.

Allo stesso modo trauma e stile sono strettamente connessi nel romanzo La carne (il Saggiatore, 2018), opera prima della britannica Emma Glass, giovane scrittrice che con sorprendente freschezza narra un tema di difficile congestione: le molestie sessuali. L’autrice non lo fa con il pathos dell’estetizzazione, né con il facile ricorso al tragico, la Glass è abbastanza arguta da evitare le trappole morali insite nella verbigerazione dei discorsi sullo stupro che in questi mesi abbiamo visto porsi – a giusta ragione – all’attenzione del consesso sociale. Il trauma evocato da Emma Glass si trasfigura in una favola dai toni stralunati, ricca di scene violente, quanto di comicità grottesca o involontaria.

Le premesse sono quelle di un’allucinazione fantasy: una ragazza vegetariana viene aggredita in un bosco da un uomo fatto di salsicce, la violenza non è occasionale, poiché da quel momento la ragazza – pur cercando di dimenticare l’accaduto – viene perseguitata da questo personaggio bislacco quanto inquietante. La prosa di Emma Glass è ossessiva, ridondante, minimalista fino all’eccesso, un cesello che è filastrocca, che diviene nenia disturbante e disturbata.

La scena della violenza, il trauma da cui si dipana la trama, è resa in questo modo: «Vedo nero. La sua bocca nera. Un pertugio nella pelle. Aperta. Spalancata. Di un nero bruciato. Polpa bruciata. E il suo fiato greve di carbone mi si attacca alla pelle. Mi soffoca. Le lacrime slittano sopra l’unto e cadono. Il mio corpo ronza. Devo andare a casa ma quando cammino mi fa male. Metto la mano tra le gambe e sento il sangue e l’unto. Vomito. Mi pulisco la bocca sulla manica, mi metto il guanto in bocca e serro la lana tra i denti. Corro. Non lontano. Non veloce. Fa troppo male. Serro ancora più forte la lana tra i denti. Almeno fosse acciaio. Mi volto. Nastri di vomito mi rincorrono. Luccicanti fiumi rosa. Se solo piovesse».

Nella penna della Glass l’azione si frammenta, diviene una sequela di particelle, di punti giustapposti che creano un effetto illusorio, eppure all’occorrenza vivido, capace di attirare l’occhio del lettore in un vortice in cui ogni singola parola ha la sua importanza, e la materialità dell’atto si protende oltre l’atmosfera fantastica, colpendo allo stomaco senza mezze misure. L’andamento simile a una filastrocca perversa lascia un retrogusto dolciastro, lo spaesamento della protagonista è lo stesso del lettore, poiché i colori pastello cozzano con la violenza evocata, i ragionamenti adolescenziali configgono con la crudezza della narrazione. La nausea di Peach è la nostra, il rigetto della carne da parte della vegetariana è lo stesso del corpo violato. Emma Glass ha la capacità di volgere il trauma in qualcosa di bizzarro, e per questo di comunicare il disagio attraverso una forma nuova, ostica quel tanto che basta per far riflettere, così perturbante da rimanere piantata in testa. Nei frammenti di uno stile esploso, minimale e arzigogolato, si nasconde il talento di una narratrice sfuggente.

(Emma Glass, La carne, il Saggiatore, 2018, pp. 120, 17 euro)
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LA CRITICA

Un tema difficile trattato con l’estro di uno stile minimale e bizzarro. Una narrazione dai toni fantasy che muta in un grottesco oggetto non identificato.

VOTO

7/10

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