“Dio non appare in foto” di Jordi Bonells

di / 21 novembre 2011

Oggi basta un click. Per molte cose. Anche troppe.
È tutto pronto, già assemblato. Un pacchetto che aspetta la presa, un meccanismo preesistente dove quello che resta è avvicinare le mani. Siamo un plotone di infallibili acquirenti, che scalda le tasche e poi le sgonfia. A ritmo di un tocco. Non servono sforzi. C’è sempre un Demiurgo, dentro un computer, dietro un motore, ad agire per noi, a esonerarci dalla Creazione. Frullare la frutta come i pensieri. Selezionare un’immagine dalla propria cabina, illudendosi di essere liberi.
Scartando a priori le sbavature, eleggendo solo il meglio. Con un dito appena.
Ma non è sempre stato così. Prima che il progresso ci rubasse il sudore, ci volevano giorni per un risultato e un piccolo gesto si dilatava in altri milioni.
Sviluppare una foto avviluppava anche gli occhi. Occorreva del tempo, una stanza notturna dove far nascere il sole, diluire l’attesa nell’acqua, separare il metolo dal solfato di sodio.
Occorrevano alchimie. Dove l’oro era a due dimensioni.

Lo sa bene Jordi Bonells e ce lo racconta nel suo libro Dio non appare in foto (Keller Editore, 2011).
È una storia familiare la sua, che s’ingrassa a tal punto da confondersi con quella di un pezzo di Spagna, di una zolla del suo cuore.
Papà Felix muore, un numero qualunque del mese di febbraio e al figlio non resta che ricostruirlo, che ritracciare un rapporto asciugato troppo in fretta. Lo fa attraverso una scatola, che prima conteneva biscotti e poi ha scelto i ricordi. Attraverso quelle foto, quei recinti di realtà in cui il mondo abita dentro ma anche fuori dal campo visivo, la vita di Felix prende forma e sapore.
Tira di boxe, frequenta circoli anarchici, impegna i polpastrelli sui tasti di un piano, ma non vorrebbe sprecarli così. Perché di suonare non gli importa per niente. Gli interessa un’altra melodia. Gli interessa usare la sua Leica, una macchina semplice, una lente così primitiva che non si può sfuggirle.
Gli è capitato di essere giovane, in quel luglio strozzante del’36, mentre franchisti e ribelli si tagliano la strada.  E lui sa da che parte stare. Decide di partire, il fronte lo attende e allunga le braccia.
Sua zia prega, che la guerra finisca, che la bestia non torni, perché è una suora di clausura e le suore non sono mai le beniamine di una rivoluzione. Sguscia fuori dal convento, che non può più proteggerla e si aggrappa forte al braccio del nipote. Con una gioia che sgomenta. Che le fa paura.
Maria si guarda allo specchio ed è ancora bella, così bella che è quasi peccato. Prega che Felix si salvi e lo attorciglia di troppe preghiere. E Dio se ne accorge. E s’infastidisce.
 S’innesca da qui il conflitto civile?
È tutta colpa di Maria e del suo fiato incrinato? È stata punita per aver messo un altro vestito?
Da dove sgorga la frana dell’odio?
L’autore ci snoda davanti un romanzo pungente, di enormi domande.
Un obiettivo ineludibile, una pellicola dove imprimere anche quello che lo sguardo non coglie, la volontà ultraterrena chiamata con nomi diversi, che esonda dai margini di tutte le foto, ma le condiziona.
Un linguaggio immediato e affilatissimo, che scava nel profondo della Storia e dei suoi cittadini, delle minime infinite esistenze che il fiume trascina dentro il suo letto.
Un ritratto che imbriglia non solo i suoi personaggi, ma l’umanità intera, tutta compresa dentro uno scatto.
In cui è spesso il destino la camera oscura.

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