“Il bambino che collezionava parole” di Juan Pablo Villalobos

di / 17 agosto 2012

Cosa accade quando un autore decide di adottare il punto di vista di un bambino? Gli esempi sono tanti – da Günter Grass a Safran Foer, passando ad esempio per il fortunato caso di Mark Haddon – con esiti molteplici, ancor più sfaccettati. Tuttavia, sono tutti accomunati dalla difficoltà di ricostruire una vicenda da un punto di vista altro, a tratti opposto a quello reale e a suo modo straniante, lontano tanto dall’autore quanto, solitamente, da noi lettori. Come suggerisce il titolo del suo romanzo d’esordio (Il bambino che collezionava parole, Einaudi, 2012), per Juan Pablo Villalobos la chiave è proprio il linguaggio, le parole: cinque aggettivi, per la precisione. 
Tochtli è un bambino, vive in un palazzo, ha una bellissima collezione di cappelli, uno zoo personale in giardino e terribili crampi allo stomaco. Conosce tredici o quattordici persone, o forse una ventina, ma non ricorda, non ne è sicuro, perché alcuni di loro sono cadaveri. Non sappiamo quanti anni abbia, né molto del suo aspetto, se non che ha la testa rasata, perché i capelli sono morti, «sono come un cadavere che ti porti in testa». Ciò che per certo sappiamo di lui, filtrando le brevi frasi di questo monologo interiore in miniatura, è che: «Alcune persone dicono che sono avanti. Lo dicono soprattutto perché pensano che io sia piccolo per sapere parole difficili. Alcune delle parole difficili che so sono: sordido, nefasto, lindo, patetico e fulminante». Questi quindi, i pennelli con i quali Tochtli assegna una tonalità a tutto ciò che gli accade, dando vita a un piacevole racconto, sempre abilmente in equilibrio tra l’ironia e la melancolia più cupa: «Credo che in questo momento la mia vita sia un po’ sordida. O patetica».
Il mondo di Tochtli è costruito su una sorta di etnologia della violenza – sa, per esempio, che «ai francesi piace molto tagliare la testa ai re», o che «per essere re in Africa devi ammazzare molta gente» – all’interno della quale le  persone si classificano in semplici binomi, dettati dall’appartenenza o meno alla vita, ai narcos, alla giustizia: vivi-cadaveri, non muti-muti, finocchi-veri uomini. Si tratta, appunto, di una sfera tutta al maschile: le uniche figure femminili che si aggirano per il palazzo sono le effimere “novanta-sessanta-ti schianta” che frequentano il padre. L’assenza della figura materna non è che un elemento in più di quel mondo adulto che Tochtli non capisce, non ama, e finisce sempre per somatizzare: «Quando non sopporto il mal di pancia, come oggi, Cinteotl mi prepara un infuso di camomilla. A volte ho dolori così forti che mi metto persino a piangere. In genere sono come dei crampi, ma i peggiori sembrano un vuoto che cresce e cresce come se volesse farmi scoppiare la pancia. Quando ho questi dolori piango sempre, ma non sono un finocchio. Stare male è diverso da essere un finocchio. Se stai male puoi piangere, me l’ha detto Yolcaut». Per riempire questo vuoto, reso ancor più doloroso dalle bugie del padre, tra i principali narcotrafficanti dell’America Centrale, Tochtli si inventa le passioni più disparate e strambe: quella per i cappelli, per il Giappone – e soprattutto per i muti giapponesi –, o quella per gli ippopotami nani della Liberia. Yolcaut non fa che accontentarlo, conciliando, a modo suo, i suoi doveri di padre con i ritmi dettati dal mondo della droga.
Scegliendo questa particolare focalizazzione, l’autore affronta una tematica tutta messicana, che se fino a qualche anno fa era prerogativa di giornalismo e saggistica, è ora sentita al punto di aver dato vita a un intero filone letterario, quello della narco-letteratura, che vanta Élmer Mendoza tra i suoi maggiori rappresentanti. Villalobos guarda al suo paese d’origine prendendo le distanze, tanto nella realtà – vive e lavora a Barcellona – quanto nella finzione. Il Messico non è per questo meno vivo e presente nella narrazione: l’autore crea un microcosmo dai tratti machisti, i cui personaggi hanno nomi preispanici, che sanno di tradizioni antiche, in cui gli omertosi sono ingenuamente visti come semplici muti, e in cui padre e figlio giocano a “vivo, cadavere o prognosi riservata”.
Con una prosa scorrevole, abile nel mantenere l’equilibrio tra un’ironia sempre latente e la tragicità di cui sono impregnati i fatti narrati, Villalobos racconta uno spaccato della società messicana con una delicatezza rara, non priva di tratti quasi surreali, favorita dalla prospettiva infantile. Un romanzo breve, fresco, che riesce con efficacia a svincolarsi dai classici canoni del thriller, e che forse, nelle parole di Tochtli, non vuole dirci altro che questo: «a volte il Messico è un paese nefasto, ma altre volte è anche un paese magnifico».

(Juan Pablo Villalobos, Il bambino che collezionava parole, trad. di Thais Siciliano, Einaudi, 2012, pp. 78, euro 10)

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